Quando uscì al cinema Jurassic Park, nel 1993, ero ancora un bambino, e come molti bambini a quell’epoca (non so se sia vero anche oggi) andavo matto per i dinosauri. In particolare, per qualche strano motivo ero letteralmente estasiato dall’eleganza dell’elasmosauro (che in realtà non era nemmeno classificabile come dinosauro, ma che volete che ne sappia un bimbo di 10 anni!). Inutile dire che il film mi piacque moltissimo, un po’ per l’emozione di vedere muoversi sullo schermo i rettili giganteschi di cui collezionavo figurine, e un po’ per l’idea che fosse possibile resuscitare animali estinti da milioni di anni attraverso una strategia che mi apparve meravigliosamente raffinata. All’inizio del film, l’inventore del parco di divertimenti mostra ai protagonisti un video in cui viene descritta la procedura per estrarre il DNA dei dinosauri da zanzare fossilizzate nell’ambra, e da esso riportare in vita gli antichi rettili.
Era una semplice storia di fantascienza creata dal genio di Michael Chricton, ma non era del tutto campata in aria, e molti scienziati iniziarono a chiedersi se fosse tecnicamente possibile clonare animali preistorici a partire da un reperto fossile, come gli insetti imprigionati nell’ambra, per l’appunto. Un articolo appena pubblicato sulla rivista PLoS ONE si inserisce in questo filone di ricerca, rispondendo forse in modo definitivo a questa domanda. Purtroppo per gli amanti dei dinosauri, la risposta è negativa.
L’esito di questo esperimento è abbastanza deludente, e per mettersi al riparo da eventuali critiche, i ricercatori si mettono sulla difensiva. Scrivono infatti: “We do not believe that our negative results, from two sequencing libraries prepared from four extracts, can be ascribed entirely to technical incompetence.” Gli autori non sono un branco di imbecilli, insomma, e credono piuttosto che di DNA sano, in quei reperti, non ce ne fosse proprio. Spiegano che la degradazione del DNA può essere influenzata da molti fattori diversi, tra cui l’ossigeno, l’umidità, la temperatura e il tempo trascorso dalla morte dell’organismo, e poiché sappiamo poco di ciò che accade agli insetti durante il processo di amberizzazione (il fenomeno chimico che trasforma la resina in copale e quindi in ambra), non sappiamo come questo processo influisca sulla degradazione del DNA. Una cosa, però, è certa: se il DNA di un insetto di sessant’anni fa è ridotto in queste pessime condizioni, molto difficilmente sarà possibile estrarre DNA di dinosauro dall’ambra di origine preistorica.
Quello di Penney e Brown è solo l’ultimo colpo inferto al sogno di Jurassic Park. Nell’ottobre 2012 un altro articolo pubblicato su Proceedings of the Royal Society aveva calcolato l’emivita del DNA, cioè il tempo di degradazione necessario per dimezzarne una certa quantità. Si tratta di appena 521 anni, troppo poco per poter sperare di ricavare delle sequenze leggibili da campioni vecchi di milioni di anni. E se qualcuno sperava che l’ambra potesse conservare meglio il DNA, proteggendolo in qualche modo dalla degradazione, oggi è rimasto deluso. Ma niente paura, la speranza di vedere i dinosauri camminare nuovamente sulla terra non è ancora morta: la prossima estate esce Jurassic Park 4!