Questa volta faccio un’eccezione e parto dalla fine. Cioè dall’effetto che la lunga chiaccherata con il team #svegliamuseo (con tanto di Oceano nel mezzo) mi ha lasciato in testa e che, più o meno, suona così: “Non chiedetevi cosa #svegliamuseo può fare per voi, ma cosa voi potete fare per farne parte”.
L’inizio della storia lascio a voi scoprirlo attraverso il sito #svegliamuseo. Nell’intervista voglio lasciare spazio al presente e al futuro di un progetto con un certificato di nascita sicuramente “made in Italy”, ma un passaporto dagli innumerovoli timbri.
E i protagonisti di questi viaggi per il mondo (reale e virtuale) firmati #svegliamuseo sono: Francesca De Gottardo, archeologa dai sogni formato Indiana Jones (è lei che ha innescato la scintilla); Valeria Gasparotti, implementatrice museale dalla chioma rossa naturale e prima compagna di avventura; Alessandro D’Amore, storyteller infaticabile e dalle mille idee; e Aurora Raimondi Cominesi, grande appassionata del progetto e fedele supporto in ogni evento speciale.
L’occasione del nostro ‘incontro’ è l’uscita di Comunicare la cultura online: una guida pratica per i musei, il primo ebook di #svegliamuseo dedicato alle istituzioni culturali italiane non a proprio agio con il mondo della comunicazione digitale (e scaricabile gratuitamente).
Ma, vi assicuro, questo ebook è solo la punta di un grande e dirompente iceberg che (fortunatamente per i musei italiani) aprirà varchi che ci porteranno lontano Siete pronti? Si parte.
#svegliamuseo: un progetto che nasce come provocazione e diventa un’importante ricerca. Come ci siete riusciti?
Crediamo che il successo di #svegliamuseo e la sua trasformazione in qualcosa di più strutturato siano dovuti principalmente alla risposta che c’è stata da parte del pubblico al quale ci rivolgevamo. Se i professionisti museali non avessero raccolto la provocazione, rispondendoci in maniera a volte polemica, a volte costruttiva, ma sempre mostrandoci lati diversi del loro lavoro e delle problematiche a questo connesse, probabilmente #svegliamuseo si sarebbe esaurito nell’intento iniziale di pubblicare 10 interviste a 10 musei stranieri.
E invece?
Oggi siamo più consapevoli delle necessità di chi lavora o vorrebbe poter lavorare nella comunicazione digitale della cultura e il nostro progetto si è evoluto per diventare un punto di riferimento in questo settore, fornendo un luogo di incontro in cui trovare esempi di best practices, articoli di approfondimento e soprattutto altri professionisti con cui potersi confrontare.
Col tempo, e grazie al confronto costante via email e nel gruppo Facebook, i professionisti dei musei hanno iniziato ad aprirsi alle idee che le nostre interviste cercavano di diffondere, chiedendo maggiori informazioni e sperimentando con gli strumenti, fino a diventare orgogliosi diffusori dell’hashtag #svegliamuseo.
Usate spesso la parola “curiosità” nel descrivere il vostro lavoro: credete sia una dote chiave degli operatori culturali 2.0?
Come dice Ed Rodley del Peabody Essex Museum, per lavorare in un museo “non conta tanto quello che sai, ma quello che sei disposto a imparare”. Crediamo che la curiosità sia una dote chiave di qualsiasi professione moderna.
Spesso, le professioni museali sono associate all’idea di una conoscenza profonda e “definitiva” in un settore specifico. Ma il processo per cui dopo un lungo percorso di studi si inizia a lavorare e si fa quel lavoro fino alla pensione inizia a non bastare più. Bisogna sapersi rinnovare e uscire dal guscio del proprio settore di studio, essere in grado di ascoltare e reagire a quello che succede nel mondo.
Le nuove tecnologie sono un dato di fatto e vanno tenute presente, anche se personalmente si è meno disposti a twittare, a leggere su un tablet, o a giocare ad Angry Birds: queste componenti fanno parte della cultura contemporanea e negarne l’importanza, non conoscerle e non esplorarle non è più accettabile, specialmente da parte del management delle istituzioni culturali.
Parliamo ora del vostro ebook (a cui hanno preso parte in veste di autori anche Federico Giannini, Pietro Colella e Astrid D’Eredità). Nel primo capitolo s’identifica nella (mancata) interazione il punto debole dei siti dei musei italiani. Paura di aprirsi al dialogo con l’esterno o non comprensione delle potenzialità degli strumenti digitali?
Il problema potrebbe essere legato ai flussi di lavoro interni. Un tempo il sito web era gestito da una sola figura che ne curava gli aggiornamenti e l’immagine. Oggi ci troviamo sempre di più ad avere a che fare con strumenti che permettono una creazione diffusa dei contenuti: attraverso un CMS, più persone alla volta possono avere accesso alla modifica e alla creazione dei contenuti. Per non parlare, poi, della possibilità di aprire blog, usare i social ecc.
Non tutti i musei sono attrezzati, sia in termini di risorse, sia in termini di formazione, per affrontare questo cambiamento che va a intaccare decisamente gli aspetti del lavoro quotidiano. Inoltre, ci sono standard di accessibilità e informazione che devono essere rispettati; ignorarli non è più un’opzione.
Un buon 90% dei visitatori di un museo arriva al sito prima ancora di arrivare alla sua porta. Il compito prioritario del sito è comunicare al pubblico, in una frazione di secondo, che cosa il museo è. Per l’interazione e l’approfondimento esistono una moltitudine di altri possibili canali, che devono essere raggiungibili dall’hub centrale.
L’esempio più radicale in questo senso è il Rijksmuseum di Amsterdam: il sito non lascia spazio ad altro che alla ricchezza visiva della collezione – che poi è quello che si percepisce quando si entra nel museo. Inoltre, adotta un approccio che riconosce come i visitatori accedano sempre maggiormente da mobile (il sito è pensato con un’ottica “iPad first”).A proposito di storytelling, diamo un consiglio ai musei: dove vanno cercate le storie da raccontare?
Questo è un consiglio che diamo sempre molto volentieri perché dentro c’è la chiave per un possibile cambiamento: non hanno bisogno di cercare storie. I musei sono circondati da storie a tutte le ore di tutti i giorni della settimana. Ogni quadro, reperto, opera, perfino l’edificio stesso del museo racchiude infinte storie che aspettano solo di essere raccontate.
Bisogna solo cambiare prospettiva, o meglio indossare gli “occhiali giusti” per riuscire a leggere al meglio quelle realtà. Anche l’opera più rappresentativa di un museo, sulla quale sono state scritte decine di articoli specialistici, volumi e approfondimenti, può rivelare storie mai raccontate prima, piene di emozioni e vicine ai nostri pubblici.
Esempi di storytelling museale che vi hanno particolarmente colpito?
Dovendo scegliere, senza dubbio citeremmo il blog curato dai conservatori dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen, nel quale con brevi e semplici post gli stessi addetti ai lavori del museo spiegano su cosa lavorano, perché lo fanno e con quali finalità. Un’appendice correlata del blog è la sezione dei video, in cui sempre i curatori hanno a disposizione al massimo tre minuti per parlare del loro lavoro come farebbero con un gruppo di amici al bar.
Un’altra gran bella preferenza se la merita il blog “Inside/Out” del MoMA di New York che – con un nome che è tutto un programma – riesce a comunicare efficacemente il dietro le quinte di un’istituzione così grande e solo apparentemente complicata.
Ovviamente non ci sono le parole per raccontare un museo, ma – ad esempio – anche le immagini. Il Tumblr (la piattaforma di blogging dedicata prevalentemente alla condivisione delle immagini) dell’Horniman Museum & Gardens è riuscito con successo a raccontare la vita, le avventure e le disavventure del museo proprio attraverso le immagini: particolari e curiosità delle collezioni. E lo hanno fatto talmente tanto bene da vincere un premio internazionale durante l’ultima edizione di Museum & the Web di Baltimora.
L’uso dei social network in ambito culturale ha definitivamente sancito la contrapposizione tra word of mouth e pubblicità classica. Questo riuscirà a garantire maggiore qualità nella promozione culturale o ci sono dei rischi all’orizzonte?
Nel mondo della comunicazione online è necessario che musei e istituzioni culturali siano capaci di adeguare tono e lunghezza dei contenuti in base alla piattaforma che stanno utilizzando per la diffusione. Un blog richiede un tone of voice diverso da un paper accademico, su Facebook funzionano meglio testi di tre/quattro righe al massimo, per Twitter è necessario pensare messaggi che non superino i 140 caratteri, e così via.
Ma il fatto che la forma si adegui allo strumento non significa che debba farne le spese la qualità del contenuto, si tratta solo di sperimentare per trovare la giusta via di mezzo che rispetti il livello culturale del messaggio e le aspettative del pubblico dei social network.Non crediamo si tratti di un maggiore o minore livello di qualità nella promozione culturale, stanno solamente cambiando il modo di attirare l’attenzione dell’audience e gli schemi d’interazione tra istituzione e pubblico. La differenza fondamentale rispetto alla pubblicità in senso classico sta nel formato, che è ora più malleabile, dinamico e visivo, ma non nella qualità del contenuto.
Affrontiamo il tema “analisi dei dati”: un consiglio per non sentirsi sopraffatti da questa attività?
Iniziare un passo alla volta e con un approccio strategico, avendo ben presente gli obiettivi prefissati all’inizio della propria attività online. Non ha senso misurare un numero infinito di variabili, se queste non sono in grado di rispondere alla nostra domanda fondamentale: abbiamo raggiunto l’obiettivo?
È importante che un museo affronti le proprie scelte di comunicazione digitale con un approccio sistematico che parta dagli obiettivi e dal target che si vuole raggiungere e che selezioni poche metriche – le classiche “poche ma buone” – in grado di verificare in maniera semplice e diretta il raggiungimento di quegli obiettivi.
Vogliamo ampliare il nostro pubblico? Controlleremo sempre la crescita del numero di fan e il reach raggiunto dai nostri post. L’obiettivo è invece generare engagement e diffondere contenuti educativi? Terremo gli occhi bene aperti sul numero e sulla qualità dei commenti, sulle domande che riceviamo, sugli share e i retweet.
Nel progetto Svegliamuseo On Air (video-interviste pubblicate sul canale YouTube di #svegliamuseo), un professionista museale italiano incontra un collega di un museo straniero: quali sono le tre parole chiave emerse da questi confronti?
Confronto. Scoperta. Apertura.
L’innovazione digitale è lo strumento giusto per portare il sistema culturale italiano su standard internazionali?
L’innovazione digitale è sicuramente uno dei mezzi, ma non il fine. Nel caso del sistema culturale italiano bisognerebbe considerare un approccio più ampio, che includa la capacità di aprirsi e di essere ricettivi agli stimoli che provengono dal mondo contemporaneo.
Nessun museo ha la ricetta magica per il successo, dal momento che si tratta di un percorso in divenire, ma una componente importante è il confronto con il maggior numero di realtà possibili, allontanandosi dall’idea che i musei, e con loro il management museale, siano immuni ai cambiamenti e giustificati nel loro isolamento dal tipo di collezioni che conservano.
Il futuro di #svegliamuseo sarà all’insegna di…?
Continuare a provarci! Scherzi a parte, ci piacebbe riuscire a perfezionare il percorso di #svegliamuseo aggiungendo un’attività di formazione sui temi connessi al digitale in ambito museale. Siamo al lavoro su nuovi piani “di conquista del mondo”, sempre compatibilmente con i nostri impegni personali e professionali, e presto sveleremo le nostre carte.
Il vostro progetto deve molto alla sua dimensione di gruppo e di condivisione: possiamo sfatare l’idea che la cultura digitale sia il regno dell’autoreferenzialità e della solitudine?
Assolutamente! La base di #svegliamuseo fin dai primi giorni di vita è stata la condivisione, l’idea che due teste siano meglio di una e dieci meglio di due.È finita che abbiamo scoperto che duemila teste sono molto meglio di dieci, e dallo scambio di idee e opinioni con altri professionisti e con semplici appassionati è nato un nuovo #svegliamuseo, più completo e maturo, più aperto alle esigenze del target a cui si rivolgeva.
La dimensione della community è sicuramente uno degli aspetti migliori che questa rivoluzione digitale ha comportato, in netta contrapposizione con l’idea dei centri di cultura come torri d’avorio isolate e irraggiungibili. La contaminazione, quando segue strategie e approcci “intelligenti”, è la chiave dell’evoluzione, in ogni settore.
A questo punto, per mettere alla prova il grado di community del team #svegliamuseo, vorrei proporvi un gioco decisamente social. Ci proviamo?
Ok!
Aurora: il social network a cui paragoneresti Francesca?
Twitter: 140 caratteri per parlare di tutto con tutti in ogni parte del mondo, abbattendo tutte le barriere (senza virgole, come un fiume in piena). Francesca parlerebbe anche con le pietre, se potesse: fidatevi di chi l’ha vista intavolare conversazioni lunghissime in un suq della Libia (non si sa bene in che lingua).
Alessandro: il social network a cui paragoneresti Aurora?
Foursquare: perché ha viaggiato molto, è una persona cosmopolita e conosce un numero spropositato di lingue. L’applicazione, per definizione, è dedicata agli “esploratori che vogliono conoscere i luoghi migliori e condividere ciò che hanno scoperto con gli altri”; ditemi se non le si addice!
Francesca: il social network a cui paragoneresti Valeria?
Instagram: perché ha lo spirito curioso di chi non si ferma mai alla prima occhiata ma approfondisce, filtra, migliora, zoomma sul dettaglio interessante e ne trova la descrizione perfetta.
Valeria: il social network a cui paragoneresti Alessandro?
Facebook: perchè le storie che crea devono essere pensate e costruite con grande lavoro e possono essere arricchite con una varietà di media. Non per questo però manca di immediatezza e la freschezza.
E per finire, quale colonna sonora scegliereste per scandire il risveglio dei musei italiani?
It’s a long way to the top (if you wanna rock’n'roll), degli AC/DC. Il ritmo rock serve per svegliare tutti per bene, mentre le parole rendono il senso di #svegliamuseo: non esiste un punto di arrivo, il percorso di evoluzione è lungo e richiede impegno e voglia di mettersi in gioco.
A questo punto, cos’altro mi rimane da aggiungere se non: “che l’insonnia (e il rock) siano con voi ragazzi e con TUTTI i musei italiani!!”