La maggior parte degli altri paesi firmatari si erano già impegnati per lo scambio automatico di informazioni ma la Svizzera e Singapore, importanti centri finanziari, non lo avevano ancora fatto. E finora lo scambio scattava solo su richiesta, in caso di indagine del fisco o della magistratura. Le banche avranno un anno di tempo per adattare i loro sistemi informativi e i governi stessi dovranno modificare i loro ordinamenti fiscali.
Sempre sul tema, vi riporto l'ottimo articolo di F. Renne, pubblicato qualche mese fa su "The Fielder", che offre un quadro esaustivo della situazione.
Ilmitodelsegreto bancarionon esiste ormai (quasi) piú. Non nelle economie avanzate; e, a ben vedere, meno di quanto si pensi nei presuntiparadisifiscali e finanziari. Le prime, strette tra le indicazioni delGAFI(«Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale» —FATF, in inglese — con ampi poteri di promulgazione di linee guida operative per contrastare frodi, sostegno a organizzazioni terroristiche e riciclaggio internazionale che, invero, sono sempre piú adottate anche in campo fiscale dagli attuali 35 Paesi membri) e le singole esigenze di gettito da trovare. I secondi, perché molti di loro stanno, piú o meno volontariamente, riconvertendosi in piazze finanziariecollaborative, e quelli che ancora resistono sono sempre meno di numero e sempre di piú nel mirino delle pressioni della comunità internazionale. Contrariamente a quanto si può pensare, infatti, questa non è una storiasoloitaliana — anche se siamo stati antesignani nel muoverci nella direzione sia dell’abbattimento del segreto bancario in campo fiscale sia dell’adozione di misure del (tanto criticato quanto poi copiato) rientro agevolato dei capitali. V’è una convergenza di piú temi verso un unicostrumento, ostacolato dall’esistenza di quest’antico mito. Il contrasto al riciclaggio internazionale, prima; il contrasto ai finanziamenti illeciti a sostegno del terrorismo, poi; le singole esigenze di gettito fiscale in un numero sempre maggiore di Paesi, infine — tre temi che convergono verso lo strumento dello scambio dei dati per la cooperazione giudiziale e fiscale. Il quale trova(va) l’unico ostacolo nella resistenza del segreto bancario, esistente soprattutto in alcune giurisdizioni. Ma stadavverocambiando qualcosa, a livello internazionale, sul tema? E poi: come s’è mossa l’Italia, e come si sta muovendoora? Infine, come dovrebberocambiare i comportamentidi fronte a questo scenario? Intanto, va detto che a livello internazionale il vento è cambiato soprattutto dopo l’11 settembre2001. A séguito dell’attacco alleTorri Gemelle, per la prima volta nella loro storia, gli USA smisero di mettere il veto ad azioni o proposte legislative che andassero nella direzione di limitare la libertà d’azione dei paradisi fiscali e finanziari. Prima, tutti i tentativi — essenzialmente europei — di «perforare» normative di Paesi terzi non collaborativi nelle indagini giudiziarie avevano sortito poco effetto. Con la liberalizzazione valutaria in Europa, oggi data per scontata, ma datata «solo» primi anni Novanta, era stato introdotto un primo accordo di scambio di dati su richiesta d’un altro Stato nonché un sistema di rilevazioni statistiche (la «nuova»CVS,comunicazione valutaria statistica, per le operazioni «canalizzate» e il quadro RW, nella dichiarazione dei redditi, per le «non canalizzate» tramite intermediari finanziari e per le «consistenze» d’investimenti detenuti all’estero); ma, nellapratica,non ebbe grande successo nei primi anni d’applicazione. Poi era venuto il turno — su proposta dell’allora Commissario Europeo dell’Italia,Monti— della «direttiva sull’euroritenuta», che istituiva il principio alternativo tra scambio dei dati e tassazione alla fonte ad aliquota maggiorata (fino al 35%). Questa, però, si scontrò súbito sia con le resistenze inglesi (che chiesero l’esclusione della sua applicazione alle società e alle altre persone giuridiche, nonché la sua applicazione ai soli redditi di capitale e non alle plusvalenze — rendendola, nei fatti, facilmente aggirabile) sia con le deroghe concesse a tre Stati membri: l’Austria, il Lussemburgo e il Belgio. Dopo l’ingresso sulla scena del pericoloterrorismo, tutto cambiò. Non lo dicono solo le cronache per gli addetti ai lavori, ma soprattutto un fatto eclatante, transnazionale e probabilmenteallorapoco compreso nella sua portata. Per la prima volta, vi fu un provvedimento giudiziale soprannazionale chebloccò, con una specie di sequestro preventivo, i conti e i depositi ovunque aperti nell’UE e nei Paesi aderenti al GAFI — USA compresi — da soggetti o istituzionisospettatedi fiancheggiamento al terrorismo. Provvedimento vincolante anche in quei Paesi che vedevano ilsegreto bancariotutelato nella Costituzione, come l’Austria o la Svizzera. Un precedente utile a un certo scopo di prevenzione nella lotta internazionale al terrorismo, che però ha aperto un varco a ciò che stiamo vedendo oggi. Lo scenario è stato, inItalia, accompagnato dall’evoluzione di due misure (tanto discusse quanto tuttora attuali)interne: l’originariaanagrafe dei conti correnti e dei depositi(strumento ideato dall’allora ministroVisconel 2006, al fine di «radicare», in maniera agevolata, l’inversione dell’onere della prova nei casi d’accertamenti di natura finanziaria in deroga al segreto bancario, già possibili fin dal 1991) e le prime versioni delloscudo fiscale(strumento per agevolare il rientro dei capitali irregolarmente detenuti all’estero cosí da ampliare la base imponibile per gli anni successivi, ideato dal ministroTremontinel 2001). Indipendentemente dal giudizio di ciascuno sui singoli strumenti (per chi scrive, qualora interessi: utili le deroghe al segreto bancario, finché restano, appunto, deroghe; pericoloso il ricorso all’anagrafe dei conti e dei depositi per la violazione dei diritti diprivacy, ma moltocomodo, in termini ditempiguadagnati, per gli accertatori del fisco; condivisibile laratiodelle norme sul rientro dei capitali), questi provvedimenti sono stati il prodromo di ciò che sta avvenendo — anche contraddittoriamente, in parte — oggi. Oggi, lederogheal segreto bancario sonoandate a regime. L’anagrafeè diventatadei rapporti finanziari, non si limita alla tipologia del rapporto ma s’estende ai saldi e ai volumi movimentati su conti correnti o per investimenti finanziari, ed è estesa agl’intestatari e ai loro delegati — ancheuna tantum— nonché alle assicurazioni (per i prodotti aventi natura finanziaria) e alle fiduciarie (con regole particolari che ne mantengono, a date condizioni, la convenienza al loro uso). A questa s’aggiunge, poi, ilnuovo redditometroe le segnalazioni di monitoraggio connesse. Per finire, dodici anni dopo, il governo s’appresta a varare una norma di nuova facilitazione del rientro dei capitali detenuti all’estero, sulla falsa riga del programma divoluntary disclosureistituito negli USA e «promosso» dal GAFI, con applicazione delle imposte eventualmente evase e l’agevolazione di sanzioni ridotte, amministrative e penali. Perché farli rientrare, per chi li ha fuori, e che cosa fare, per chi li ha regolari in Italia? Di nuovo, occorre guardare a ciò che sta succedendo all’estero. Leisole britanniche del canalehanno ormai ceduto alle pressioni internazionali.San Marinoha appena firmato un accordo di cooperazione coll’Italia, dopo aver perso piú del 50% dei depositi negli ultimi dieci anni, in cui ha di fatto cercato diguerreggiarecoll’Italia. AMontecarlolesocietà anonime, quelle con azioni al portatore, devono depositare annualmente i nomi dei soci, ed è stato firmato un accordo di collaborazione con la Francia. IlLiechtensteinormai fa raccolta quasi esclusivamente con prodotti assicurativi. L’Austriae laSvizzera, come quest’ultima con Gran Bretagna e Germania (solo per quest’ultima per ora sospeso), hanno firmato un accordo, giornalisticamente detto «Rubik», che prevede tassazione elevata sui risparmi se non viene concessa dal cliente l’autorizzazione allo scambio dei dati. GliUSAstanno firmando — proprio di questi giorni è stato il turno dell’Italia — con diversi paesi gli accordiFATCA, che impongono agl’intermediari specifici obblighi di segnalazione e di comportamento con clienti americani. Gli USA hanno anche «imposto» alla Svizzera un accordo che prevede, a date condizioni, multe salate alle banche elvetiche per il passato ove vi siano state attività con clienti americani, e ora stanno rivolgendo le loro attenzioni a piazze piú esotiche, caraibiche e asiatiche. (Nel mirino, oltre a Panama e altre isole minori, sembrano esservi ora le piazze arabe, come Dubai, e dell’Estremo Oriente, come Hong Kong e Singapore.) Per finire il quadro, Svizzera, Lussemburgo e Austria, tra l’altro, hanno firmato gli accordi di cooperazione e scambio dei dati a partire dal 2015.
Certo, se non si continuasse in Italia s’una china sbagliata, dopo aver tassato retroattivamente — non rispettando lo Stato il patto coi contribuenti — i capitali scudati, facendo ora paventare ulteriori incrementi d’imposizione sulle rendite finanziarie e patrimoniali future piú o meno occulte, magari dato il contesto lavoluntary disclosurepotrebbe anche funzionare, con annessi benefici per il Paese (piú per il potenziale rilancio degl’investimenti che per le casse dell’erario). Ma una cosa resta chiara: se iltrendè comune ad altri Paesi e iriparisono sempre meno affidabili, ladifferenzasta nellivello d’imposizioneinterno — complessivamente benpiú altorispetto agli altri Paesi — e nelleregoled’accertamento e riscossione, basate su presunzioni e inversioni dell’onere della prova — con continuelesioni del diritto alla difesa— e sulladisapplicazionedelloStatuto del Contribuente. Non è una storiasoloitaliana, s’è detto all’inizio;occorrerebbe però rimuovere le anomaliesolonostre. SEGUI VINCITORI E VINTI SU FACEBOOKE SUTWITTER