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Svolgimento alternativo di Il duca di ghiaccio

Creato il 15 giugno 2010 da Isn't It Romantic?

               

SLIGHTLY DANGEROUS

Questo vuole essere il prologo di uno svolgimento alternativo de IL DUCA DI GHIACCIO di Mary Balogh, dove il protagonista Wulfric Bedwin, duca di Bewcastle, troverà una compagna diversa dalla maestra Christine Derrick

Londra, 1818

La stanza era buia e silenziosa. Benché fosse mezzogiorno le pesanti tende di broccato verde boscoalle finestre erano tirate, come a voler tenere lontana la luce del sole. O come a voler sigillare dal mondo quella camera sontuosa, arredata con quanto di meglio il denaro potesse comprare. Un sepolcro per i vivi e per i morti. Una tomba per ciò che era stato e che mai più sarebbe stato.

Lei se n’era andata, per sempre.

Lieve, come il battito d’ali di una farfalla, aveva percepito la sua anima accarezzarlo e poi volare via, lontano, in un altrove dove lui non avrebbe potuto raggiungerla.

Ora solo il suo corpo freddo rimaneva a fargli compagnia, immoto e pallido come marmo. Un corpo che lui aveva apprezzato ed amato e che in quel momento non riconosceva. Dov’era finita la splendida giovane che aveva sedotto il suo occhio dieci anni prima? Dov’erano le sue forme generose eppur eleganti, dov’erano la grazia e la sensualità di una carnedi cui conosceva ogni più intimo recesso e che in tutto quel tempo gli aveva dato piacere, calore e conforto, sebbene quest’ultimo non lo cercasse spesso, perlomeno consapevolmente?

Sola, la sua splendida e lussureggiante chioma, nera come la notte, gli ricordava che era la sua Rose a giacere in quel letto enorme, testimone e teatro dei loro amplessi. Non riusciva a chiamarlo sesso, perché gli pareva così di sminuire l’atto che aveva condiviso con Rose, riducendolo alla meccanicità da riservare alle prostitute, né d’altronde poteva definirlo fare l’amore, dato che tra loro c’era stato affetto e stima, ma certamente non amore.

Wulfric Bedwyn, duca di Bewcastle, si mosse sopra la sedia su cui si trovava immobile da quasi un’ora. Si sporse a toccare, con la punta delle dita, la pelle gelida della giovane, fiocamente illuminata da un candelabro a tre braccia posto sul comodino: aveva solo ventotto anni, troppo pochi per morire, o forse troppo pochi per vivere. Un banale raffreddore si era trasformato in una grave infiammazione ai polmoni e nel giro di due mesi se l’era portata via. Le strinse una mano, piccola in quella grande e lunga di lui , eppure stranamente giusta, come se il suo palmo fosse la sua collocazione perfetta. Sapeva che nessuno avrebbe ricambiato la sua stretta, tuttavia una parte irrazionale di lui quasi si attendeva e sperava chelo facesse: per cancellare l’incubo di quelle ultime settimane, per rimettere indietro le lancette dell’orologio, per far tornare tutto come prima e riprendere le consuete abitudini.

 Wulfric attese.

Nulla accadde e tutto sarebbe accaduto. La sua esistenza sarebbe irrimediabilmente cambiata e non in meglio.

Si raddrizzò e le lasciò la mano. Non avrebbe dovuto essere lì, un duca non presenziava alla morte dei propri cari, figurarsi a quella della propria amante plebea. Ma era lì e non si pentiva né di esserci, né di averla assistita durante la dolorosa malattia. Che lo criticassero pure, se ne avevano il coraggio, a lui onestamente non importava. Non era aduso a giustificarsi, né a spiegare le proprie azioni, uno dei vantaggi della propria posizione. Un duca aveva sempre ragione, un duca non sbagliava mai, nessuno lo attaccava apertamente e tutti si affannavano a compiacerlo. Come il padre di Rose, che gliela aveva lasciata senza una singola protesta, e si era goduto gli innumerevoli e consistenti vantaggi di avere una figlia mantenuta di un pari del regno.

E lei Rose, cosa aveva davvero pensato di lui e del loro rapporto? Non ne aveva idea e adesso non l’avrebbe più scoperto. Chissà per quale ragione in quel momento era così dannatamente importante determinarlo, quando per anni se l’era solo fuggevolmente domandato. Forse perché ora non avrebbe avuto altre occasioni per chiederlo e Wulfric voleva credere che lei fosse stata almeno un poco felice durante la loro relazione.

Molto opportunamente era già vestito di nero, essendo giunto al capezzale di Rose la notte precedente dopo aver lasciato il ricevimento di Lady Jersey, chiamato d’urgenzada Denton, il maggiordomo. I vestiti e l’aspetto di un altro uomo sarebbero apparsi sgualciti dopo una notte e una mattinata di veglia, ma Wulfric, a parte la ricrescita della barba scura, sembrava perfettamente in ordine, come i suoi costosi e raffinati abiti. Soltanto le ombre scure sotto gli occhi, di una peculiare tonalità di grigio, denunciavano stanchezza e un leggero smarrimento nel suo viso affilato ed aristocratico.

La sua dolce amica l’aveva abbandonato. Modesta e docile anche nel supremo addio, le sue ultime parole erano state per scusarsi di averlo scomodato. E poi si era consumata, come cera che bruciasse in fretta, fino a spegnersi, avvolta in una virginale camicia di batista, quasi che nel trapasso volesse riguadagnare la purezza perduta. Una purezza che lui aveva preso, consapevolmente, e che aveva ricambiato con lussi inimmaginabili per la figlia di un maniscalco di paese. Dove sarebbe andato ogni sera per ristorarsi? Chi gli avrebbe procurato quella pace dal fardello responsabilità? Dove avrebbe trovato un’altra Rose, che ascoltava e sorrideva ed era sempre pronta ad accontentarlo?

Ma lui non voleva un’altra Rose. Rivoleva la sua Rose. Rivoleva la sua boccache sapeva di miele, la sua pelle che odore di vaniglia, il suo corpo cedevole che lo accoglieva …

Un colpo alla porta interruppe il flusso dei suoi pensieri. Non rispose.

Bussarono nuovamente, questa volta con più decisione. L’uscio si aprì, facendo entrare un soffio di aria fresca in quell'ambiente stantio.

─ Vostra Grazia, e’ arrivata la carrozza─  lo avvertì il maggiordomo, immobile sulla soglia. L’uomo esitò per un attimo ─ Io … e la signora Smith ci occuperemo di tutto per la signorina, secondo le vostre istruzioni milord.

─ Grazie Denton, scenderò immediatamente.

Denton si ritirò, lasciandolo di nuovo solo con Rose, circondato dall’oscurità della stanza e immerso in quella che aveva nel cuore. Doveva andarsene, ma non riusciva ad alzarsi, era ancorato a quella semplice sedia di legno, la sedia che Rose si era portata appresso dalla sua vecchia casa per ricordare sempre da dove veniva, gli aveva detto. Infine, con un certo sforzo si mise in piedi, le ossa che, anchilosate, scricchiolavano come gli scarpini lucidi. Era il secondo paio con quel difetto, doveva cambiare calzolaio, riflettè Wulfric.

Posò le labbra sulla fronte di Rose per darle l’ultimo bacio, un bacio tenero, un bacio fraterno. Un piede davanti all’altro, si costrinse ad uscire da quel luogo in cui sapeva non sarebbe più tornato. Avrebbe seppellito personalmente Rose e con lei una parte della sua vita e della sua anima. Non si voltò, se l’avesse fatto avrebbe indugiato ulteriormente e bisognava riprendere il ritmo della giornata, era già in ritardo di parecchie ore e lui non era mai in ritardo. Si sarebbe fatto un veloce bagno per poi cambiarsi, pranzare con un abito da sera sarebbe stato oltremodo sconveniente .

Scese la scale con lentezza, ignorando i domestici che si erano raccolti nell'atrio e afferrando cappello, guanti e mantello il più velocemente possibile.

 Il sole l’accolse una volta all’aperto, come a prendersi gioco della sua perdita. Era una giornata sorprendentemente mite e tersa per un febbraio londinese; gli alberi spogli coi nudi rami protesi in preghiera verso il cielo gli ricordavano il supplice che era stato lui stesso qualche ora prima, quando aveva implorato Dio di non prendersi la sua amante. Dio non l’aveva ascoltato, né aveva ascoltato gli alberi, a cui aveva tolto il fogliame, per lasciarli esposti alle intemperie.  Senza quasi accorgersene, salì sulla carrozza il cui movimento ondulatorio lo cullava e chiuse gli occhi.

Si dirigevano a casa. E lui era solo. Di nuovo.

Faceva male, molto male.

Elizabeth Pearse osservò Bewcastle sparire dentro la carrozza dalla finestra del salotto del primo piano. I suoi occhi erano asciutti, nonostante la morte della donna con cui aveva condiviso gli ultimi cinque anni della sua vita. Era stata la sua dama di compagnia e la sua insegnante, per fornirle quel minimo di istruzione che la giovane non aveva avuto, ma che le era necessaria per stare, pur se marginalmente, a fianco di un duca. Rose era stata una ragazza di buona indole, poco complicata e non particolarmente profonda, contenta e grata della fortuna che le era capitata anche se trovava Sua Grazia noioso e non lo capiva. Però Elizabeth lo comprendeva, anche più di quanto lui non comprendesse sé stesso. Benché stesse soffrendo una parte del suo cuore, in verità una grossa parte, stava cantano perché forse, dopo cinque anni di attesa, di orgoglio ingoiato a forza, di finta serenità ostentata, c’era una remotissima possibilità che finalmente lui si accorgesse di lei. Probabilmente era davvero cattiva a covare simili illusioni quando il cadaveredi Rose era a pochi metri di distanza, ancora tiepido. Tuttavia Rose non lo aveva mai, mai amato.

Mentre lei lo amava e tanto. E che Dio la perdonasse, lei avrebbe fatto di tutto perché lui la guardasse


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