Molti critici hanno definito questo film unico, profondo, acuto.
Io per tutta la durata del film ho pensato solo alla sua solitudine. La solitudine di un uomo e delle sue paure più profonde. Un ego smisurato che gli fa rappresentare la sua opera più grande: se stesso.
Synecdoche, New York il primo film di Charlie Kaufman che arriva in Italia 6 anni dopo la sua distribuzione, ruota attorno al personaggio di Caden Cotard, interpretato da Philip Seymour Hoffman, un regista teatrale frustrato dai suoi problemi fisici e familiari. Adele una moglie depressa, concentrata sui suoi stati d’animo e all’inseguimento di una carriera che la porta lontana dal marito rifugiandosi a Berlino con una figlia anche piccola. Caden all’improvviso si ammala misteriosamente e rimane ossessionato dal timore della morte, decide a quel punto di mettere in scena uno spettacolo magistrale e mastodontico che rappresenta la sua vita e i suoi pensieri.
Cosa troviamo più di frequente in questo film? La parola IO. Una vita in cui si, siamo protagonisti assoluti, ma siamo anche comparse e attori della vita di altri. Paura e delirio a New York questo oserei dire di questo film. Un dramma in cui i sentimenti più ossessionati sono la morte e la ricerca di risposte a domande che nessuno ha.
Charlie Kaufman, regista del film e sceneggiatore di film geniali come Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello, da vita alla sua creatività. Partiamo dal titolo stesso “Synecdoche, New York” che ancora non ho capito bene come si pronuncia, figuriamoci come si scrive. La spiegazione si trova nell’unione tra il nome della città di Schenectady, dove è ambientato il film nella contea di New York, e la parola sineddoche (in inglese appunto tradotta con synecdoche), figura retorica che usa una parola di senso più stretto per indicarne una di senso più ampio o viceversa. Un titolo confuso che rispecchia alla perfezione l’intreccio del film e delle sue parabole.
La domanda però è questa? Avevamo davvero bisogno di un altro film che ci confondesse le idee al punto tale da dire “Ma le paure sopravvivo in noi o noi sopravviviamo a loro?”. Sono ingiusta? Forse. Ma so anche che il primo commento ascoltato al termine del film di una giovane ragazza seduta accanto a me è stato: “Ma tu hai capito il senso?”. E la risposta che non le ho voluto dare era questa: “Io ho visto solo la megalomania di un regista che si rappresenta, non ascoltando e non vedendo le vite degli altri. Persone che camminano intorno a noi, che sono al di fuori di noi e che vivono a prescindere da noi”.
Strano che la solitudine che ho visto in questo film venga associata alla morte improvvisa e angosciante di Philip Seymour Hoffman avvenuta pochi mesi fa. Un attore che aveva tutto agli occhi degli altri, ma che forse dentro di se aveva troppi vuoti da colmare.
La paura ci cammina di fianco, ma se ci supera allora dobbiamo fare un passo indietro per sconfiggerla.