Le conosciamo bene, le operaie della Tacconi Sud di Latina, conosciamo bene la loro tenacia. In 1 anno di presidio permanente dentro la fabbrica, in collegamento costante con il nostro blog e con i maggiori programmi televisivi, abbiamo imparato tanto dalla forza di queste meravigliose donne. Il 9 febbraio ci sarà l’udienza finale. Questo è il loro diario di oggi: 365 giorno di occupazione.
“Spett. Direzione Aziendale Tacconi Sud
Alla Questura di LatinaOggetto: assemblea permanente
Le lavoratrici riunite in assemblea il 19 gennaio 2011, hanno proclamato lo stato di agitazione, con conseguente “assemblea permanente” a partire dalla data odierna e a tempo indeterminato.
A tal fine verranno usati i locali mensa e i servizi igienici.
Contestualmente si chiede un incontro con la proprietà per definire:
Domanda di CIGS
Mobilità
Spettanze economiche
Versamento contributi pensione integrativa
Recupero TFR”
Questi elencati furono i gli obiettivi dell’occupazione, ma il suo protrarsi ha aggiunto altre voci.
Alcune legate alla vertenza. L’imprenditore trovato e la proposta di concordato. Altre dal significato più ampio che un’occupazione 24 ore su 24 ha comportato. Mettersi al domicilio coatto per avere ragione di diritti indisponibili è un’assurdità.
Quale reato abbiamo commesso? Quello di aver perso il lavoro? Di aver smesso di essere competitivi sul mercato globale degli schiavi?
Cosa rappresentano le occupazioni delle fabbriche nell’Italia del 2011? Quale filo sottile le unisce in un’unica ed irrevocabile realtà? Quale politica industriale? Quale Lavoro? Quale futuro?
A queste domande nessuno sembra rispondere. Il dibattito politico italiano sul tema lavoro oppone a questioni di diritto altre questioni di “diritto del lavoro”, come se l’unico motivo per il quale il nostro Paese non trova soluzioni al suo rilancio, fosse paradossalmente un “eccesso di tutele”.
Come dire che a causa di un diritto indisponibile come quello difeso nell’articolo 18 non se ne possa avere un altro come il diritto al lavoro sancito nel primo articolo della nostra Costituzione. Se una norma lascia spazio al suo raggiro, la soluzione non è necessariamente nella sua abolizione, ma semmai nella sua modifica al fine di evitarne l’abuso.
In tal senso appare logico che tutto questo dibattito sull’eccesso “di garantiti”, che a questo punto rappresentano l’ unica vera anomalia in una logica del mercato del lavoro che sancisce il precariato ad oltranza, non affronta il tema principe del dibattito e cioè: quale lavoro? E soprattutto da quale politica industriale esso è pensato, sostenuto e infine realizzato? Potrebbe essere questa la scaletta di intervento? O dobbiamo in primo luogo sperimentare una deregolamentazione totale del mercato del lavoro per capire quali cose “proprio” non debbano essere fatte? Sarebbe opportuno ricordare che la sperimentazione su cavie viventi, sia animali che umane dovrebbe essere definitivamente bandita, e che le soluzioni a domande complesse come quelli attuali non possono trovare risposta nelle vecchie ricette adottate dove “ il lasciar fare al mercato” produceva come effetto secondario il suo naturale assestamento.
Le attività umane come quelle economiche non sono un prodotto della natura, non hanno leggi della fisica o della biologia a regolarne gli eccessi, hanno solo la legge -altra produzione umana- a garanzia delle storture che un’attività come quella economica insieme a tutte le attività umane, limitate nel tempo e nello spazio possono produrre. Tutto il resto è costruito da una vera cultura del lavoro che sappia valorizzare l’essere umano nelle sue potenzialità espresse e latenti.
In tal senso e in riferimento al contesto che queste hanno prodotto, occupare una fabbrica e mettersi agli arresti domiciliari è una degenerazione del “senso” del diritto in risposta ad una “evidente degenerazione” del mercato economico. Questa crisi è una guerra! Ci sono dei combattimenti in corso e alla fine conteremo le vittime! È tempo di emergenze per chi ha responsabilità di governo, ma nel compiere le mosse successive bisogna tenere conto del “rumore di fondo” che questi “combattimenti” producono. Posto che lo si possa immaginare come una sinestesia, quale suono abbinereste al sacrificio? E continuando così, quale colore produrrebbe la dignità?, Quale profumo potrebbe lasciare un diritto perso? Quale storia alla fine riuscireste a scrivere? E soprattutto a quale prezzo?
Un elemento è pericolosamente assente in tutto il racconto. Questo è l’elemento umano e la cultura del lavoro che intorno ad esso vogliamo costruire, quale futuro abbiamo immaginato e soprattutto cosa intendiamo per esistenza umana. Scriveva Primo Levi ”Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra” , se questo è la possibilità che immaginiamo per ognuno di noi, allora dobbiamo rivedere il nostro modo di costruire gli oggetti, il valore che questi hanno per noi ecosa rende migliore la nostra l’esistenza.
L’attuale economia è completamente alienata dagli oggetti che vengono costruiti e che rappresentano ormai, una realtà virtuale dell’economia reale, un paradosso insostenibile che applica “proiezioni di realtà” in sostituzione alle reali visioni economiche d’insieme, dove ciò che si crea è “un’ipotesi di ricchezza” che si dissolve con la stessa velocità con la quale se ne riproduce un’altra, che avrà anche questa un’esistenza altrettanto breve.
In questa giostra assurda “girano” le vite delle persone, i loro progetti, il loro potenziale vitale condizionato dal capriccio del mercato, tra un in e un out, si consumano le loro speranze, le loro vite in attesa di poter afferrare il proprio futuro.
Il nostro futuro è qui. In ogni del nostro presidio… noi qui Resistiamo.
di Rosa Emila Giancola (delegata RSU FEMCA CISL)
(19 gennaio 2012)