Tacere e imparare

Da Marcofre

Qualcuno potrebbe chiedere: ma tutto questo scrivere sulla parola, sul senso che contiene, e che può svelare, a che serve? Nessun editore ed editor è davvero interessato a questo. È business, e se non hai un piano (il business plan?) non interessi a nessuno.

In effetti che io interessi a qualcuno è un’eventualità assai remota. Ma che un autore abbia un piano, mi pare evidente; semmai è sconosciuto a lui per primo di che cosa si tratti, e dove lo porterà. Perciò affermare che si “deve” avere questo benedetto piano mi pare soprattutto un modo per darsi un tono, per avere qualcosa di cui parlare.

“C’ho il piano, io”.

Herman Melville scrive un paio di libri che riscuotono un ottimo successo: sono ambientati nelle isole dei Mari del Sud, dove aveva fatto ammutinamento con un suo compagno, e aveva vissuto in una tribù di cannibali per un anno, se non ricordo male. Tornando a casa intero: è essenziale salvare la carcassa, qualunque sia la propria ambizione. A quei tempi il suo piano non prevedeva il “Moby Dick”, né “Bartebly lo scrivano” o “Benito Cereno”: infatti furono dei fiaschi e morì quasi dimenticato.

Dostoevskij scrive “Povera gente”, e diventa un po’ l’idolo dei circoli progressisti di San Pietroburgo: aveva un piano? Forse, ma ben presto lo cambia. Con “Il sosia” avviene lo strappo da Belinskij e inizia un viaggio che lo farà diventare uno dei maggiori scrittori russi di sempre.

No, credo che in verità entrambi avessero già il germe di quello che avrebbero scritto, di lì a poco. Ma non ne erano ancora consapevoli.

D’altra parte affermare di voler scrivere non vuol dire nulla: e nemmeno dichiarare l’urgenza narrativa porterà mai da qualche parte. Perciò, che piano potrà mai essere?

La mia idea è sempre la stessa, più o meno: un editore di un certo tipo forse cerca una testa, non solo un paio di mani che pestano una tastiera. Lui sa che alla lunga quello che premia è il pensiero che un autore è in grado di elaborare e di proporre attraverso la sua opera. Buone notizie: siccome pensare è un’attività scomoda e praticata da pochi, la concorrenza è scarsa.

C’è un problema: la sua scarsità e soprattutto la difficoltà di “smerciarla” impone di starne ben alla larga, quando capita di incrociarla. Da questo si comprende perché buona parte dei libri siano bla bla. Ma credo che richiedano comunque una buona dose di abilità nel confezionarli, e questo occorre riconoscerlo.

Quindi? Niente.
Il paradosso è che di questi tempi si continui a proclamare la grande novità del Web (ed è giusto), e che tuttavia al centro dei discorsi spesso ci sia il lettore, e basta. Come se si fosse scritto per le aristocrazie del pensiero, i pochi, e adesso fosse finalmente tempo di tornare a parlare alla gente.

Gabriel Garcia Marquez per chi scrive? E Charles Dickens? Simenon? Zola? Loro sapevano e sanno (nel caso dello scrittore sudamericano) come comunicare; infatti hanno avuto successo. Adesso se vuoi comunicare non puoi pretendere niente di meno che l’eccellenza.

Ce l’hanno gli editori questa eccellenza? E tanti autori che guardano con diffidenza a quello che accade al libro, possiedono la capacità non dico tecnologica, bensì umana di tacere e imparare (almeno un per un po’?).

Attenzione: tacere e imparare non vuol dire dare del tu a concetti come il backup, o imparare a cifrare la corrispondenza o allegare una firma digitale alla propria mail. Anche quello certo.
Mi riferisco a qualcosa in grado di dispiacere al lettore, perché in grado di declinare un mondo diverso da quello che abbiamo sotto gli occhi.

Abituati come siamo a certe categorie che a prima vista chiamiamo interessanti e rivoluzionarie, abbiamo solo reso il mercato (non solo del libro) più addormentato. E non è affatto detto che l’ebook lo risvegli, e di certo non accadrà se si mette al centro il lettore. Spiacente: o al centro ci mettiamo una testa che pensa, o tanto vale dichiarare il colesterolo patrimonio dell’umanità.


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