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DONNE CRUDELI NELLA STORIA, o della malvagità in rosa.

Creato il 19 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Teodora di Bisanzio

Teodora di Bisanzio

di Riccardo Alberto Quattrini.

“Nella vendetta e nell’amore la donna è più barbarica dell’uomo.”
Friedrich Nietzsche

Per lei si può perdere la testa. Lo sa bene San Giovanni Battista che per una danza, che piacque molto al governatore Erode Antipa, concubino di sua madre Erodiade, Salomè ottenne come premio la testa del santo. Il celebre quadro di Gustave Moreau l’”Apparizione” esposto al museo del Louvre a Parigi rappresenta la personificazione stessa della crudeltà femminile. Bella sensuale e priva di scrupoli.

Senza donne cattive, la letteratura sarebbe più povera, il cinema meno avvincente, la storia più noiosa, la cronaca né nera né rosa, la politica di oggi solo un po’ meno irri-tante, e Beautiful nemmeno esisterebbe, opera maestra di cattiveria, dove quasi tutte le signore passano indifferentemente, di puntata in puntata, dal diavolo all’ acqua san-ta, una volta dolci e generose, l’ altra pronte ad ogni misfatto.

La canzone Vipera è l’esempio massimo di come gli uomini si siano serviti della ge-nerosità di signore probabilmente innamorate, per far finta di esserne vittime.

Ella portava un braccialetto strano
una vipera d’oro attorcigliata
che viscida parea sotto la mano
viscida e viva quando l’ho toccata
quand’ella abbandonavasi fremente sul mio seno
parea schizzasse tutto il suo veleno.

La storia le ha bollate come perfide, streghe, efferate criminali, meretrici, vedove per provocazione, esse sono le malvagie che nei secoli hanno impugnato scettri e sciabo-le, veleni e pistole.

Prendete Clitennestra, “quel perfido mostro”, come la chiama il marito Agamennone rivolgendosi a Ulisse nell’Ade.
Ho ucciso quell’uomo con un coltello, in una vasca da bagno, con l’aiuto di quel poveraccio del mio amante che non riusciva nemmeno a tenergli fermi i piedi.” Cli-tennestra o del crimine brano tratto da Fuochi scritto da Marguerite Yourcenar.

Definite senza mezzi termini come strumenti del demonio, queste donne hanno poco a che vedere con la natura debole che dai tempi biblici si associa al genere femminile. Eroine nere i cui ritratti agghiaccianti, tracciati dall’opinione pubblica del loro tempo, permangono ancora oggi nonostate, per alcune, le ricerche ne abbiano messo in di-scussione la veridicità o l’imparzialità. Il gesto d’impugnare un arma, la capacità di manipolare gli uomini, sono stati sufficienti per una condanna definitiva. Relegate a un rapporto di parentela con il potere, le donne, dall’antichità fino all’alba del XIX secolo, seppero tuttavia accaparrarselo con le unghie e con i denti, mostrandosi, se necessario, insensibili verso i nemici al pari dei loro colleghi dell’altro sesso.

Una delle prime fu Olimpia d’Epiro, bella, altera e carismatica, sebbene il suo ventre avesse partorito uno dei più celebri e osannati condottieri del mondo antico: Alessandro Magno, non ebbe grande fortuna. Nel 336 a. C. il marito Filippo II, uomo rozzo e violento, che l’aveva ripudiata per sposare Euridice, venne assassinato; dietro a quel pugnale, che lo colpì a morte, molti videro proprio lei, Olimpia la sacerdotessa di Dioniso, una donna più velenosa dei serpenti di cui amava circondarsi, che non esitò a decretare la sorte tragica della stessa Euridice e del suo figlioletto; tutto pur di assi-curare la Macedonia al figlio.

Usurpare un trono con le buone o con le cattive fu una pratica seguita da molte regine.

Hatshepsut, nel lontano 1480 a.C., fu nominata tutrice del figliastro e futuro faraone Tuthmosi III. Dopo cinque anni di reggenza canonica s’insignì del titolo di re dell’Al-to e del Basso Egitto (e per farlo arrivò perfino a farsi raffigurare con una barba finta), prolungando il suo tutorato per 20 anni. Tuthmosi III si accanì contro la sua memoria, cancellando il nome dalla storia a colpi di scalpello. Eppure Hatshepsut riuscì a scampare all’oblio, forse grazie alle capacità di comando che aveva dimostrato di possedere in vita.

La regina più conosciuta, più raccontata dalla letteratura e dal cinema fu Cleopatra. Discende da quel Tolomeo che assunse il controllo d’Egitto alla morte di Alessandro Magno e, come i suoi avi, nel suo sangue nulla ha di egizio poiché è una macedone. Fu accusata delle peggiori azioni possibili nei confronti dei suoi amanti romani, Se-condo Orazio fu la viltà di Cleopatra a determinare l’esito nefasto delle sorti della bat-taglia navale di Azio nel 31 a. C., poiché la su ritirata con sessanta navi al seguito gettò nel panico le retrovie. Ma la sua penna era indenne dal pregiudizio antiegizio? In ogni caso la superbia e la spregiudicatezza della regina questa volta non avevano salvato l’Egitto, anzi l’avevano probabilmente spinto più velocemente verso il suo destino.

Più spietata fu Fredegonda di Neustria, cresciuta tra capanne, porcili e aie, nelle fan-gose vie di una cittadina. Entrata alla corte merovingia come una semplice serva nel 560, presumibilmente tra i quindici e i diciassette anni, si ritrovò a frequentare il talamo reale. Galsuinda moglie del re Chilperico venuta a conoscenza della tresca mi-naccia di tornare in Spagna. Il re cerca di rabbonirla con dolci parole, ma Fredegonda lo convince a eliminare la moglie. Una notte uno schiavo la strangola nel letto, la concubina diventa così nel 568 a pieno diritto moglie e regina.

Per niente soddisfatta, scatenò la sua sete di vendetta contro tutti coloro che avrebbero potuto mettere a repentaglio un così sudato e ambito traguardo. Mandò i propri si-cari direttamente negli accampamenti nemici, colpì prelati ostili e sudditi minacciosi, ma si accanì soprattutto contro la prole che lei non riusciva a garantire al sovrano e che invece chi l’aveva preceduta aveva generosamente messo al mondo.

Pensando alla favola di Cenerentola si stenterebbe a credere che essa sia possibile an-che nella realtà. Invece è ciò che accadde a Irene di Bisanzio. Dei messaggeri del re diffusero un bando in tutto il regno, dove il sovrano cerca una principessa per suo fi-glio. Così vengono sguinzagliati tutti i suoi messi in tutte le province a cercare nelle dimore, anche le meno agiate, quella giusta, quella dal piedino perfetto.

Così da basilissa, ossia imperatrice, dovette proclamarsi basileus, imperatore, unico caso nella storia dell’Impero romano d’Oriente per poter affermare il proprio diritto di sovranità. Il suo sogno era ripristinare il culto delle immagini bandito dal suo prede-cessore, Costantino VI – per i Bizantini, infatti, il culto delle immagini era il simbolo di una degenerazione religiosa pari all’idolatria pagana -, e nessuno avrebbe potuto fermarla, né rivali, né pretendenti al trono, estromessi tutti con la violenza o con l’a-stuzia. Ella non risparmiò nemmeno il suo stesso figlio, che preferì accecare, nel 797, per essere certa che il proprio potere non fosse minacciato in alcun modo.

Alla fine della prima crociata, nel 1100, vennero a costituirsi in Terra Santa quattro Stati cristiani: il principato di Antiochia, il regno di Gerusalemme, la contea di Tripoli e la contea di Edessa, che occupavano perlopiù la fascia costiera siro-palestinese, a parte l’ultima che a nord di Aleppo si sviluppava nell’entroterra anatolico. Melisenda di Gerusalemme sentiva suo di diritto il trono, primogenita, fu educata dal padre Bal-dovino II alla politica e nominata correggente del suo regno. La delusione fu grande quando scoprì che il padre, nel 1127 si era arreso al costume imperante di cedere la sua mano, e il regno, al ricchissimo Folco V d’Angiò un uomo vecchio, ovvero qua-rantenne, rozzo e orripilante secondo le cronache del tempo, immediatamente di-sprezzato dalla fidanzata. Per anni Melisenda covò rancore, finché la rabbia non esplose. Costruì una trama così fitta e mise in atto una serie di intimidazioni tali da terrorizzare chiunque le si fosse schierato contro.
Il primo a soccombere fu proprio il marito, che si pose diligentemente sotto la sua vo-lontà. Più tardi toccò al figlio, Baldovino III, estromesso a lungo dagli affari di stato, fino al 1152, quando pretese il suo trono, ma solo per rendersi conto che sarebbe stato più saggio riassociare la madre alla corona di Gerusalemme.

Agrippina Minore, figlia di Germanico, sorella di Caligola, moglie di Claudio e ma-dre di Nerone, ebbe un ruolo di primo piano nella Roma imperiale. Dopo aver sfiora-to a lungo uno scettro senza mai pienamente brandirlo, nel 49 d.C. riuscì a farsi spo-sare dall’imperatore Claudio, il quale svanì ben presto nella sua soverchiante ombra. Fino a scomparire del tutto dopo aver ingurgitato i funghi esiziali di Locusta (una del-le prime avvelenatrici seriali della storia). La trux et minax (trista e mortifera) Agrip-pina era tuttavia amata dai Romani e le sarebbe stato perdonato ogni vizio se non avesse generato un imperatore folle e incendiario che, in fin dei conti, le si ritorse contro. Agrippina mal sopportava che Nerone si fosse scelto dei consiglieri filosofi, come Sesto Afranio Burro e Lucio Anneo Seneca, e fra i due iniziò un braccio di fer-ro per il potere. La decisione di ricorrere all’estrema arma del matricidio sembra sia stata favorita da un’altra donne: Poppea Sabina, che indusse Nerone a liberarsi non solo della madre, ma anche della moglie Ottavia.

Chiamata cardinal padron, papessa, Pim*accia, un maschio vestito da donna, per lei fu coniato da Pasquino, nella Roma del Seicento, il famoso detto Chi dice donna dice danno. Si tratta di Olimpia Pamphili Maidalchini (1591 – 1657), una nobildonna avi-da e corrotta che dominava Roma ai tempi d’Innocenzo X, tanto da essere rappresen-tata  in tenuta papale con il vero pontefice accanto a lei a fare la calzetta. Non fu l’unica ad ispirare la fantasia popolare. Nel 50 a.C. Fulvia fu definita da Cicerone “una donna che di femminile aveva solo il corpo”, affermazione che l’oratore pagò cara, visto che la matrona si accanì con degli spilli sulla lingua violacea del suo capo mozzato Alla morte di Papa Innocenzo X, il 7 gennaio 1655, si disse che: “Ella trasse di sotto il letto papale due casse piene d’oro, se le portò via, e a quanti le chiedevano di partecipare alle spese del funerale del papa rispondeva: “Che cosa può fare una povera vedova?”

Donna Olimpia morì di peste nelle sue tenute viterbesi di San Martino al Cimino nel 1657, lasciando in eredità 2 milioni di scudi. Venne sepolta sotto la navata centrale dell’ abbazia di San Martino al Cimino.

Anche avvicinandoci maggiormente ai nostri tempi la situazione sembra non cambia-re poi molto. Maria I Tudor, detta “la sanguinaria”, figlia del famoso Enrico VIII d’Inghilterra, fece giustiziare centinaia di oppositori protestanti. Ma non fu l’unica in famiglia a distinguersi per fanatismo religioso. Era infatti nipote di quella cattolicis-sima Isabella di Castiglia che, poco prima della scoperta dell’America del 1492, si era votata interamente alla sua personale missione: l’unificazione politica, etnica e reli-giosa della Spagna. Per realizzare questo disegno era arrivata a espellere migliaia di ebrei e musulmani che vivevano nel regno ormai da secoli.
Ma non si accontentò neppure di questo, considerando i convertiti come minacciosi
per l’unità della fede. Sostenuta dal terribile Torquemada, istituì il tribunale dell’In-quisizione spagnola che, con la scusa di scacciare streghe e diavoli “ripulì” il territo-rio dai marranos e dai moriscos, perseguitando senza pietà una bella fetta di popola-zione.

Mentre i re spagnoli venivano fregiati del titolo di catòlicos, nel cuore del cattolice-simo, a Roma, sedeva sul soglio pontificio il papa che sarebbe passato alla storia co-me simbolo di decadenza morale e malvagità: Alessandro VI Borgia. Egli fu un so-vrano temporale piuttosto che un capo spirituale, che per di più agiva spregiudicata-mente nel voler con ostinazione assicurare ai suoi familiari posizioni strategiche per allargare il suo potere. La stessa sorte e la stessa nomea non potevano che toccare alla sua unica figlia Lucrezia, descritta dalla maggior parte dei contemporanei come cor-tigiana priva di ogni morale e avvelenatrice senza scrupoli.
Divenne il simbolo della femme fatale, capace di gestire con le armi della seduzione la volontà degli uomini. Un cliché fin troppo conosciuto e utilizzato. Victor Hugo, più tardi ci mise del suo, costruendo una terribile immagine di Lucrezia Borgia e ispi-rando Felice Romani a comporre l’omonima opera di Gaetano Donizetti i famosi ver-si “Fuggite i Borgia, o giovani… Ov’è Lucrezia è morte!”
Si attribuisce, per esempio, a Fulvia, una delle mogli di Marco Antonio, la guerra ci-vile scoppiata tra quest’ultimo e Ottaviano che ebbe come teatro di scontro Perugia
nel 40 a.C.

Api regine

Eleonora d’Aquitania un carattere indomabile, potente e astuta, la figura più impor-tante del Medioevo, la regina più potente e una delle donne più belle del suo regno. Regina e consorte di Francia con Luigi VII dal 1137 al 1152 e d’Inghilterra con Enri-co II dal 1154 al 1204. Indisciplinata, non fu mai soggetta alla loro volontà, si con-frontò, li affrontò, vincendo e perdendo, ma sempre alla pari. Non era cosa semplice nel Medioevo, neanche per una regina. Partecipò alla seconda crociata portandosi ap-presso un seguito di dame, poeti e bagagli così massiccio che i francesi arrivarono per ultimi in Terra Santa. La crociata fu un disastro e molte accuse ricaddero su di lei. L’insubordinazione al marito, durante la battaglia del monte Cadmo, nel 1148, dove Eleonora occupava le prime file, comandata da un vassallo aquitano, Goffredo di Rancon, contravvenendo agli ordini del re, non attese la retroguardia e i pellegrini subirono un massacro da parte dei Turchi; il re si salvò miracolosamente. La colpa ri-cadde su Goffredo, ma i dubbi su Eleonora rimasero. Da questo momento Eleonora divenne la Messalina della sua epoca. Insaziabile, macchinosa, intrigante e oziosa. Luigi la  minacciò di far “valere i suoi diritti” di marito. Lei gli rise in faccia e gli dis-se: “Mio caro, quali diritti? Il nostro matrimonio potrebbe essere invalidato in un secondo se io volessi!”; E in effetti fu così. Eleonora, al ritorno in patria, fece annul-lare l’unione con Luigi appellandosi al loro grado di parentela non accettato dal dirit-to canonico. Poi scrisse una lettera a Enrico II il Plantageneto, duca di Normandia e conte d’Agiò: “Raggiungimi e sposami”;.
Morì nel 1204, a ottantadue anni, seppellì otto dei suoi figli.

La Rivoluzione francese, fece di Maria Antonietta una “Madame scandalo” che con la frivolezza e lascivia aveva contribuito al tracollo economico di Francia.
Considerate “femmine da postribolo” queste donne in certi casi riuscirono persino a superare i limiti della propria classe sociale e a farsi incoronare nonostante le umili origini.

L’esempio più fulgido è Teodora di Bisanzio, l’attrice di mimo audace e scandalosa che con i suoi spettacoli provocatori affascinò mezza Costantinopoli, compreso Giustiniano, l’imperatore assoluto del regno. Grazie alla sua voce seducente, non solo ottenne, nel 527, il privilegio massimo della corona, ma successivamente si guadagnò anche un posto d’onore nel consiglio imperiale grazie alla sua freddezza e alla invidiabile capacità di prendere decisioni; anche cruente, se necessario, pur di preservare quel trono.

Le concubine dei re sono state tante, probabilmente quanto il numero dei sovrani. Un potere ben più esteso della semplice relazione col potente di turno. Nemmeno il Papato fu immune da frequentatrici notturne in grado di fare e disfare pontefici, dar loro vita e morte. Una molto nota fu Marozia dei Teofilatti e sua madre Teodora. Quando il cugino Sergio irruppe nell’Urbe con le milizie del duca di Spoleto e, sostenuto dal cugino Teofilatto, si impossessò del trono pontificio facendosi proclamare papa con il nome di Sergio II. Teodora fu ben lieta di questa conquista  ma ben presto il nuovo papa, alla madre, preferì la figlia Marozia appena quattordicenne, bellissima, con grandi occhi neri e capelli corvini.
La presenza di queste donne incise profondamente nella politica e nella stessa elezio-ne di alcuni di questi pontefici tanto che il cardinale e storico Cesare Baronio coniò per quel periodo un termine: “po**ocrazia”, ovvero “governo delle prostitute”.

Venne chiamato invece “sultanato delle donne” quel periodo tra XVI e XVII secolo
in cui nell’Impero ottomano, a farla da padrone, furono le abili concubine degli uomi-ni potenti che decretarono secondo le affermazioni di alcuni storici maldicenti l’ineso-rabile caduta del loro stesso regno. L’harem un nome che evoca e fa sognare. Un mondo ovattato, chiuso, da cui non si entra e non si esce, ma non immobile. Non l’universo languido di corpi in attesa di donare piacere, non la rassegnazione e la re-missività. Prigioniere, sì, ma capaci di riformulare quel mondo, di ricostruirlo e per-sino modificarlo. Storicamente l’harem è una società attiva, con le sue tensioni, le sue lotte di potere, le fazioni, gli intrighi. Persino nell’antico Egitto i complotti nascevano spesso all’interno delle stanze dell’harem del faraone.

Quando Arthur Miller scrisse “Il crogiuolo”, il materiale storico che aveva tra le mani sarebbe bastato per scrivere un intero ciclo di romanzi. Il caso delle streghe di Salem, di fine Seicento, aveva già portato alla ribalta personaggi oscuri come Tituba Indian e Abigail Williams, famose per aver scatenato un’ondata malefica su tutta la comunità. Non furono solo le streghe a pagare a caro prezzo le loro piccole e grandi colpe, e per lo più quella di appartenere al genere femminile. Imprigionate, torturate, impiccate e persino squartate sulla pubblica piazza ci finirono anche le comuni assassine.

Si dice che uno scrittore sappia sempre fiutare una buona storia. In effetti, a Daniel Defoe bastò origliare i racconti dei marinai relativi alle piratesse Mary Read e Anne Bonny per conseguire una fama imperitura con i racconti del capitano Charles John-son, biografo dei bucanieri forse figura di fantasia, riconducibile allo scrittore. Ale-xandre Dumas padre poté lasciarsi suggestionare dalla freddezza della cortigiana in-glese Lucy Percy per creare ne “ I tre moschettieri” il mortifero personaggio di Milady.

Battere, ustionare, trafiggere, recidere, azzannare, congelare. Sono questi i verbi più usati quando si pronuncia il nome di Elisabetta Báthory, la nobildonna ungherese che all’alba del 1600 venne processata per aver seviziato, torturato e scorticato centinaia di fanciulle. Le vittime oscillerebbero tra le 100 e le 300 di cui era fortemente sospet-tata all’epoca.

Ma il Seicento fu anche l’era dell’arsenico.

Le pozioni di locusta, la “cantarella” dei Borgia, la “polvere di successione” della marchesa di Brinvillers hanno tutte in comune un unico denominatore: l’arsenico, il principe dei veleni. Propinato per scopi pratici, come ereditare, risposarsi, eliminare nemici, contribuì a costruire l’immagine insidiosa del genere femminile. C’è chi ne fece un business, come Girolamala, detta la Spana, che lo vendeva nella Roma del Seicento in boccette etichettate “manna di san Nicola”. Vedove nere e governanti le-tali hanno elargito per secoli conati, spasmi, diarree, contrazioni, tormenti intestinali. A inizio Ottocento, la tedesca Anna Zwanzinger tentava di accalappiare giudici con un pizzico di arsenico, e la cuoca francese Hélene Jegado sterminava intere famiglie per il solo gusto di scivolare da una casa all’altra come una falciatrice.

Mentre in Italia, dalla Sicilia a Roma, l’incolore, inodore e insapore “acqua” di Teofania d’Adamo e Giulia Tofana compiva il suo macello di mariti, in Francia si apriva l’affaire des poisons con l’esecuzione della marchesa di Brinvilliers.
Spostandosi nel secolo successivo ci si imbatte in donne con armi altrettanto temibili.

La madre teneva la ragazza per la testa, mentre la figlia la picchiava… Poi venne condotta in cima alle scale e legata dietro la porta di una stanza, aveva una corda in-torno alla vita e le mani legate dietro di lei, non poteva né sedersi né sdraiarsi. Questo ed altro succedeva nel 1758 a Londra in una sartoria di Bruton Street. Sarah e Sarah Morgan Metyard, madre e figlia, facevano risuonare crudeli bastoni sulle apprendiste della loro sartoria. Quasi un secolo dopo, tra spintoni, fischi e urla, Charles Dickens assisteva all’impiccagione di Marie Manning che, per vendetta e per denaro, aveva sparato con una rivoltella all’amante. Il suo gesto suscitò tanto orrore da sconvolgere il look vittoriano, che addirittura bandì il raso nero, quello stesso che la donna indos-sava mentre pendeva dalla corda.

Bibliografia

Il cuore nero delle donne  – a cura di Luca Crovi  – (Guanda, pagg 277, € 17,50)

Le 101 donne più malvagie della storia. Stefania Bonura, 2014 (Newton Compton € 5,02)

Paul Boyer, Stephen Nissenbaum, La città indemoniata. Salem e le origini sociali di una caccia alle streghe, Einaudi, Torino 1986.

Dino Buzzati, Cronache nere, a cura di Oreste Del Buono. Theoria, Roma-Napoli, 1984.

Viviano Domenici, La ragazza rapita che conquistò il sultano, in «Corriere della sera», 3 agosto 2003.”


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