"...Cercando un taxi per andare a cena o per portare i bambini dal dottore, rimango scioccato e sorpreso nel riscoprire ciò che un tempo già sapevo: qui ognuno - uomo o donna che sia - combatte per sé stesso, e non ci sono regole. Un uomo - o, come accade più spesso, una donna - ti si piazza davanti a mezzo isolato di distanza, voltandoti le spalle ma perfettamente consapevole della tua presenza (il newyorkese conosce bene quel guardarsi intorno furtivo, appena abbozzato), facendo cenno all'autista con la mano alzata.
E a quel punto non c'è niente da fare: nessuna censura, nessun appello alla lealtà, nessuna utilità nel far riferimento a quel contratto sociale implicito di cui i filosofi amano parlare e in virtù del quale, nella città ideale, ci concederemmo reciprocamente il diritto di chiamare i taxi su un intero isolato cittadino, o quanto meno aderiremmo alla clausola dei diritti acquisiti: non si può passare davanti ad un altro essere umano che oltre a essere in ritardo per la visita dal pediatra ha già il braccio alzato.
Nemmeno l'avversione per il conflitto rappresenta la regola. Se non in ciò che scrivo, nella vita io sono un inguaribile impulsivo, così spesso brontolo e borbotto impotente: "Che comportamento incivile" o cose simili. L'altro si limita a fissarmi o magari accenna pure un sorriso. La regola è di evitare lo scontro. Noi in fin dei conti non vogliamo davvero venire alle mani per questo taxi: ma a parte questo, tutto il resto va bene. L'assoluta anarchia è una regola disciplinata non dallo Stato ma da una sorta di prudente consapevolezza: fare a cazzotti comporta dei costi a lungo termine, e sarebbe da evitare. A volte pare che l'unico arbitro morale rimasto a New York sia rappresentato dalla prudenza finanziaria sull'esito delle cause legali.
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Ancora più sorprendente dell'armistizio del taxi è il trattato dell'automobile, il contratto sociale ringhiato da ogni singolo motore fermo a questo semaforo in questo istante, ma già pronto a ripartire. Migliaia di tonnellate di metallo percorrono fragorosamente le strade mentre migliaia di pedoni ingaggiano con loro una prudente versione del gioco del pollo, e tutto quel che trattiene gli uni dal distruggere gli altri è un livello minimo di fiducia fra il pedone avventato e l'autista avventato. Non ci sono attraversamenti pedonali, come a Londra, né molti vigili urbani con l'aria accigliata, come a Parigi; c'è semplicemente una consapevolezza - simile a quella esistente tra vicini di casa - del fatto che, per quanto possiamo odiarci e provare un reciproco risentimento, non ci uccideremo: quanto meno, non più spesso dello stretto necessario.
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Tornando a casa, però, a lasciarmi senza fiato non è solo il fatto che la città non esploda nel conflitto omicida più spesso di quanto faccia, ma anche la sedazione, l'addomesticamento, subite da questo luogo. Adesso questa è una città di automobili e passeggini; per quanto possa essere scioccante, perfino la metropolitana è più pulita. Una voce maschile dal tono energico e premuroso annuncia a intervalli regolari: "Allontanarsi dalle porte durante la chiusura!": una benevola supervisione, come le voci delle celebrità che esortano ad allacciare le cinture di sicurezza quando si viaggia sui sedili posteriori dei taxi. I pedoni attraversano in anticipo, ancor più di quanto ricordassi, trattando la Seconda Avenue come fosse un viale di campagna: si dà un'occhiata, non arriva nessuno, si attraversa. Le auto, però, aspettano tutte che scatti il semaforo, anche quando i pedoni - pazzi - non fanno altrettanto."
Adam Gopnik, Una casa a New York
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INFO"Adam Gopnik scrive per il New Yorker dal 1986. Ha vinto tre volte il National Magazine Award for Essays and for Criticism e il George Polk Award for Magazine Reporting. Vive a New York con la moglie e i loro due figli".
Il libro " Una casa a New York" è edito da Guanda ed è possibile acquistarlo in tutte le librerie e online (ISBN 978 88 6088 739 9).
[Le informazioni riguardanti l'autore sono state tratte dal sito www.guanda.it]