di Massimiliano Ferraro
da Ecoinchiesta
In Tagikistan l’arrivo dell’inverno è sinonimo di blackout. Le mancanze pilotate di corrente a causa della scarsità di acqua a disposizione delle centrali idroelettriche sono una consuetudine, ma quest’anno il periodo del risparmio energetico è stato annunciato dalle autorità con eccezionale anticipo. Già a settembre, secondo quanto riferito da un giornalista del sito Eurasianet, c’è stata in tutto il paese una prolungata assenza dell’elettricità. Non soltanto nelle aree remote del paese, ma anche nella capitale, Dushanbe, si sono registrati giorni con solo quattro ore di corrente.
La situazione sembrerebbe paradossale, perché nello stesso mese il Tagikistan ha venduto all’Afghanistan 115 milioni di Kwh di energia prodotti nelle sue centrali. Come mai Dushanbe vende energia all’estero se non ne possiede abbastanza nemmeno per sé?
È una domanda che riesce a provocare un palese malumore addirittura nella popolazione di questo assopito stato autoritario centroasiatico, immune al contagio di qualsiasi morbo rivoluzionario. Gira voce che questa cattiva gestione delle risorse energetiche sia dovuta a degli illeciti nelle esportazioni, e che una certa quantità di corrente elettrica destinata al paese venga considerata al pari di un surplus da poter commerciare a discapito dei cittadini. Difficile dire se sia tutto vero oppure no, ma di sicuro per i tagiki oltre al danno si aggiunge la beffa: la comunità internazionale ha contribuito a costruire linee elettriche che dal Tagikistan arrivano in molte zone dell’Asia del sud, e Dushanbe è intenzionata ad impiantare prossimamente oltre 750km di tralicci per esportare l’energia in eccedenza. Ma quale eccedenza se il paese continua ad avere in inverno un deficit energetico di almeno 2 miliardi di Kwh?
Eppure due anni fa un prezioso finanziamento ricevuto dalla Russia per il potenziamento delle risorse idroelettriche era sembrato poter rappresentare il punto di svolta per risolvere i problemi energetici. Nuovi impianti, al posto delle fatiscenti strutture di epoca sovietica, capaci di seguire con la produzione le variazioni giornaliere dei diagrammi di carico e soprattutto di fornire energia anche nei mesi invernali, quando alle centrali ad acqua fluente manca la materia prima.
Già attualmente il 98% dell’energia tagika proviene dalle centrali idroelettriche, essendo l’acqua una delle poche risorse che il paese possiede in abbondanza. Non era quindi del tutto campata in aria l’ambizione del presidente Emomali Rakhmon di trasformare il Tagikistan nel primo esportatore di energia elettrica dell’Asia Centrale. Poi tra sogni e realtà qualcosa sembra essersi inceppato ed ora nei palazzi del potere di Dushambe, all’ombra della gigantesca e inutile asta da bandiera di 165 metri voluta dal regime, gli uomini del presidente tacciono. Anche la fantasia della propaganda sembra essere momentaneamente in blackout.
Questa volta non è così facile spiegare ai tagiki la mancanza di progressi concreti sul fronte energetico, soprattutto dopo aver chiamato ogni singolo cittadino a contribuire “volontariamente” per finanziare la costruzione della nuova diga idroelettrica di Rogun. Un sacrificio che nei primi mesi del 2010 ha privato ogni famiglia di un mese di stipendio, già di per sé bassissimo.
Il costo previsto dal governo tagiko per la realizzazione dell’opera è di 2 miliardi di dollari, ma all’estero c’è già chi scommette su uno stop dei lavori per mancanza di fondi.