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Taije Silverman – Le case sono campi (Oèdipus 2014)

Creato il 06 ottobre 2014 da Carusopascoski

la copertina dell'edizione anglofonaLe case sono campi, edito da Oèdipus (si, il mio editore) e a cura di Giorgia Pordenoni, è un libro di una intensità straordinariamente attuale. Il poeta, la statunitense Taije Silverman, qui diventa il testimone della più classica odissea domestica/ospedaliera a fianco della madre irrimediabilmente malata, annulla se stessa e allontana lo spazio intorno alla propria individualità, sublimando ogni dettaglio esteriore (“mi consumo fuori dalla mia più piccola parte”). È un libro letteralmente emozionante, sospeso tra dolore e redenzione e che ha valenza poematica, in cui la Silverman riesce a testimoniare la voce sommersa di tutti coloro che vivono un dramma simile, a farne canto, estrapolarne un senso liberatorio e commovente. Tutto qui si fa intonazione di un dramma familiare che avvolge ciò che tocca, sfibrandolo, ridiscutendo la natura dell’amare e amando la perdita che ci accade.
Il letto ospedaliero, la routine terapeutica e la sofferenza fisica della madre dell’autrice si trasformano così in un Golgota davanti a cui non si può che pregare/versificare/domandarsi circa questa irrimediabile “pioggia nelle le ossa” sulla “stagione di gioia. Puoi quasi sentire, dice, che se deve finire, questo è il modo”. La delicatezza della protesta contro il dolore della vicenda privata è però dolcissima prova di straziante misura poetica. L’intreccio tra prosa e poesia è mirabile e sempre sotto controllo nonostante il contrappunto costante di immagini ora quotidiane ora visionarie, ricerca scrupolosa di una “ultima ora di sogno” concessa prima della fine di un’era sentita interiormente, cronaca di un inesorabile apprendistato al più sordo dei dolori: l’incontro con la paura, gelida e risoluta, “creatura più morbida ora, vuole arrivare/ a conoscerti. Anche lei (la paura, ndr) è spaventata/. Il volto di mia madre cede, si contrae per minuti/ prima che io apra gli occhi. Siamo con la paura ora, in attesa”. Ma quest’attesa è ben fissata nei tempi poetici, la morte un presagio precoce perché “quando ci immaginiamo la domanda/ la risposta è la tristezza”, una tristezza che si arma del più geuino (e futile, e quindi necessario) strumento di difesa umana, la nostalgia. Così questo percorso poetico, in una delle sue immagini più vivificanti e memorabili, è “un tunnel ad arco, così vediamo la luce e non ciò che stiamo lasciando”.
“Che scelta abbiamo oltre la rabbia?” si chiede la Silverman. Nessuna, oltre a una poesia che sia attesa attiva e partecipata alla realtà, qui la realtà più naufraga e terribile della perdita, perché la paura “è un ospite, come noi. E nessuno sa/ cosa accadrà”.

Sulla gioia, di Taije Silverman

La pioggia della scorsa notte ha riempito i campi di fiordalisi
blu acceso come le lune nei libri
per bambini, luce tutta di latte.
Sembrano, dice mio padre, del tipo di colore
che potrebbe risaltare di notte.

Fiordalisi appassiscono nella calura
A mezzogiorno il sole brucerà i campi
di verde, come se nessun germoglio li avesse conosciuti.
Ne ho raccolto uno per tenerlo e ora
è colora carta. Mia madre è malata.
Oggi inizia il suo ventiduesimo giorno di radiazioni.
Mentre scrivo lei è legata a un tavolo sotto quattordici piani,
la faccia immobilizzata da una rete di bianco
in istanti di luce che si muovono come piombo
attraverso di lei. Non so come dirlo.

Dopo questi campi ci sono altri che nessuno vede
e dopo quelli alberi di quercia e pioppo, il sempreverde
che sale verso una catena montuosa, la stessa
tonalità blu e il lucido luccichìo di questi fiori veloci.
La scorsa notte la pioggia è caduta in rivoli inondati.
Ho provato a aspettare, ma la cena inizia alle sei
e quando sono arrivata a casa il vestito si era bagnato.
Non ho accelerato il passo. le gocce erano tiepide
e mi han fatto ridere, forte – il riso
aveva un suono familiare e sconosciuto, nel modo in cui
a volte quando lo ascoltiamo è strano il respiro.
Come se la nostra solitudine fosse qualcosa di cui potrei parlare,
quando persino i grilli sanno che parliamo solamente d’aria.
Voglio chiedere all’aria, poi, come un amore
così esperto di desiderio possa diventare
abbastanza. Perché ci confortano le preghiere a nessuno?
Voglio così tanto. Voglio una fede che non
ho inventato, qualcosa di duro, incontestato, come al nostro tavolo
di legno, qualcosa che non suonerà mai come un nome.
È tardo pomeriggio ormai. La luce dà forma all’orizzonte come il vetro
in una lente, tanto che le montagne sembrano più blu
del punto in cui finiscono. Questa luce deve venire dal nulla.

La scorsa notte all’ora di cena camminavo su una strada ghiaiosa
attraverso la pioggia, incontro a una gioia così inspiegabile
e semplice che non aveva bisogno di testimoni. Ma tornando indietro
la pioggia si era fermata. E una foschia si spostava bassa al suo posto:
un fantasma dalle mille dita che sembrava persuadere
ogni foglia e lama in una lunga inaudita attesa,
sebbene l’arrivo che aspettavano se ne fosse già andato.
Mi sono fermata per guardare, ma ho pianto.
Siamo andati per ospedali per mesi,
abbiamo imparato tutti i nomi delle cellule a forma di stella
che i dottori tagliavano dal cervello di mia madre
e mettevano in vetrini prima di chiamarci in uno studio.
Forse noi non sopportiamo il non sopportabile.
Forse moriamo con lui. E al nostro posto una qualche forma
più ampia meno impaziente potrà essere lo spazio concesso,
ma non lo voglio. Voglio mia madre.


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