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Take That in concerto a Milano, Progress Live tour 2011

Creato il 13 luglio 2011 da Stregonestregato @ppstronzi

Ebbene, alla fine è giunto il grande giorno. Un giorno che non avrei mai pensato, fino a questo novembre, di poter vivere: vedere un concerto dei Take That al completo.

Take That in concerto a Milano, Progress Live tour 2011

Voglio dire, dopo l’enorme successo riscosso da Robbie, non avrei mai scommesso su una loro reunion a meno che non fosse stata una merdata colossale priva di qualità e causata da un super declino di Robbie. Invece, non è stato così, anzi. Io sono cresciuto con i Take That: sono stati in assoluto il primo gruppo di cui sono diventato fan. Ricordo serate intere trascorse con le mie cugine a guardare le videocassette dei loro live e le mie prime turbe omoerotiche su quei bei fisici spesso coinvolti in movimenti troppo sexy per la mia età. Innamorato prima di Robbie, poi consacrato eternamente a Gary (in tutte le versioni, chiatto, secco, palestrato, con frangetta da deficiente, con schiocche rosse da tirolese o con la chierica), ho amato le loro canzoni degli anni ’90 che, sì, hanno creato un fenomeno mediatico non di poca importanza. E quindi alle 18 precise, gambe in spalla, sono fuggito da lavoro e sono corso al San Siro: ovviamente, per una settimana intera non ho fatto quasi un cazzo a lavoro e un quarto d’ora prima di uscire mi hanno dato un casino di cose da fare per il giorno dopo giusto per farmi guardare il concerto con l’ansia di dover lavorare la notte, ma tant’è.

Dopo un viaggio da incubo sulla 91, il mezzo più puzzolente e odioso di Milano, comincio a rendermi conto che sto effettivamente andando al concerto dei Take That. Come? Thatters, thatters, thatters. Per strada, sugli autobus, in gruppo, da sole, ma sono loro, le riconosco. Le thatters, meravigliose. Ormai grandi, con i mariti appresso, ma ancora con i zaini dell’Invicta e della Seven (vi giuro non ne ho mai visti così tanti, ma li conservavano per rispolverarli in questa occasione?).

Recuperato Blugino e i biglietti è cominciato un altro viaggio della speranza verso il posto: alla fine ero al terzo anello rosso, e ho scoperto che ero proprio nell’ultima fila, quella più in alto di tutti, tra i tetti di Milano e cacate di piccioni. Una merda unica di posto, le persone sul palco erano dei meri puntini: questo è il risultato di essere squattrinati e di ridursi tardi a prendere i biglietti. Che poi, voglio dire, lo stracazzo di prato era mezzo vuoto, e allora perché i biglietti per il prato su ticketone sono rimasti esauriti per mesi? Mistero. Vabbè, ormai c’ero ed era inutile piangere sul latte versato.

 

Take That in concerto a Milano, Progress Live tour 2011

Alle otto in punto appaiono i Pet Shop Boys e per me è stata la vera, prima emozione: mi sono avvicinato da qualche mese al duo britannico e quindi è stato davvero interessante poter vedere un loro concerto. Sebbene non abbiano suonato molti dei miei pezzi preferiti (Being Boring oppure Paninaro di cui hanno messo l’intro), mi hanno accontentato con l’imperitura It’s a sin, Se a vida E e la splendida West End Girls. Sentire il campionamento che poi ha riutilizzato Madonna in Jump, mi ha riportato a vecchi ricordi di Confessions Tour e mi sono gasato ancora di più. Lo show dei Pet Shop Boys è stato parecchio gradevole, belli anche i costumi dei ballerini: riflettevo sul fatto che sia un vero peccato che siano costretti a fare da supporto. Non nego assolutamente l’importanza “commerciale” dei Take That, però secondo me considerando il genio creativo, Neil Tennant e Chris Lowe sono parecchio avanti a Gary & co.

Tra un panino e l’altro, arrivano le nove e con un countdown (pareva capodanno) parte lo show dei Take That. I primi a fare l’ingresso sono i 4 superstiti dopo la dipartita di Robbie: Jason, Howard, Mark e Gary. Vedo solo piccoli puntini, ma mi basta guardarli degli schermi giganti per realizzare che effettivamente i miti con cui sono cresciuto erano davvero lì. Mi sento un cretino coglione quando realizzo che Gary è lì e il mio cervello formula automaticamente la frase “Sposami” mentre dentro di me urlo come le thatters infuriate al mio fianco. Fortunatamente che mantengo ancora un briciolo di decenza e mi astengo dall’accordarmi al coro di urla, o quasi.

 

Beh, diciamoci la verità, lo show inizia male, per quanto mi riguarda. Le prime canzoni sono quelle che hanno riportato la band alla ribalta qualche anno fa senza Robbie: canzoncine carine, niente di che. Esibizioni che non ci incastravano un piffero con l’atmosfera molto “evolutiva-scientifica”. Se non fosse stato per l’emozione di vederli lì, non me ne sarebbe potuto importare di meno di sentire quei brani. Non male quando Mark ha fatto cantare a San Siro l’inno di Mameli, ma insomma niente di che, dal punto di vista musicale e scenico.

Poi, i quattro scompaiono e fa il suo ingresso Robbie Williams, in maniera trionfale. Dopo due secondi che è sul palco, da solo, intonando Let me entartain you, ti rendi conto che non hai capito un cazzo di Robbie finché non lo hai visto dal vivo. Impossibile il paragone con gli altri 4 (non so se volutamente ingessati), ma Robbie ha spazzato via quella serie di canzonette non solo con la sua musica ma con la sua indubbia presenza scenica.

Robbie ha dominato tutto e tutti, ha fatto ridere, ha infiammato San Siro andando da una parte all’altra del palco, simulando rapporti sessuali e improvvisando conversazioni assurde col pubblico basate su “Can you feel me?” (ripetuto tipo ogni due versi di qualsiasi canzone) e celebrando il fatto che siamo stati campioni del mondo nel 2006 un centinaio di volte (ma chi glielo dice che non lo siamo più da un anno?). Robbie è un cazzaro nel vero senso del termine, e mi sono reso conto davvero di quanto sia bravo come performer. E comunque vorrei tanto sapere di che razza di droga si fa per stare così fuori con la boccia. Concerto asciutto il suo, quasi un one-man show, bello il backdrop del suo ingresso. Poi comincia il vero Progress Live. L’uomo del palco si illumina finalmente e parte The Flood, canzone che adoro all’inverosimile.

Bella l’esibizione, loro cinque sulla sommità del palco, e tantissimi ballerini che scalano una parete d’acqua.

Grande sorpresa per S.O.S. che nelle scalette inglesi molte volte è mancata e che già mi piangevo con un ottimo backdrop e grande emozione per Pretty Things, mia canzone preferita di tutto l’album Progress e la sublime Underground Machine. Il vero capolavoro però è stata Kidz, in cui i Take That e tutti i ballerini hanno improvvisato una suggestiva partita a scacchi con i poliziotti in tenuta anti-sommossa come pedoni: d’effetto e molto adatta al tema della canzone.

E poi via con gli altri successi, fino a raggiungere il momento revival, atteso dalla maggior parte del pubblico. Grande differenza con i brani di ora, ma canzoni pur sempre bellissime: il pop degli anni ‘90 dei Take That era davvero ottimo (tranne qualche episodio un po’ troppo tamarro, ma che io adoro comunque da buon thatter gay).

Medley dagli storici album Take That & Party e Everything Changes, per poi passare all’esibizione di Pray, canzone che il sottoscritto adora, con tanto di balletto storico che amo alla follia. Lo stadio urlava impazzito, in preda alla nostalgia di quei brani che hanno segnato un periodo indimenticabile per tutte quelle persone.


E poi Back for good, un accenno di No regrets (peccato, avrei preferito che fosse cantata tutti assieme, compreso Neil Tennant dei Pet Shop Boys) e chiusura super danzereccia con Relight My Fire con Robbie che cantava le parti dell’immarcescebile Lulù.

Particolarmente apprezzata la scelta di non fare la solita cagata che se ne vanno, poi li applaudi per dieci minuti e poi tornano, sgamatissimi. Lo show complessivamente è stato molto, molto bello ma troppo disomogeneo e confusionario.

Alla fine il tema era: vi facciamo vedere quello che eravamo senza Robbie, cosa era Robbie da solo e poi cosa eravamo e cosa siamo ora tutti e 4 assieme. Il problema è che i generi musicali sono troppo differenti tra di loro e questa divisione in compartimenti stagni ha creato dei momenti con forti picchi di interesse e momenti invece molto più noiosi che tra l’altro sembravano non incastrarci un caspito l’uno con l’altro e con le scenografie in generale e il tema di Progress. Secondo me sarebbe stato molto più interessante mescolare i brani, con tutti e cinque sempre presenti, proprio per far capire che i Take That, nel complesso, sono tutto quello che hanno prodotto in gruppo o da singoli.

In ogni caso, aldilà del momento nostalgico, io sono andato al concerto solo ed esclusivamente per Progress, album che ha fatto da colonna sonora indiscussa al mio inverno, alle mie emozioni e ai miei pensieri. Perché per me i Take That ora sono questo, un gruppo valido che è riuscito ad andare al di là del pop comune e commerciale per produrne uno nuovo, di livello nettamente superiore.

 

Foto: SuperPop

 


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