Il film ‘La grande bellezza‘ di Paolo Sorrentino rappresenta, sullo sfondo della città eterna, la fatua mondanità del terzo millennio
‘La grande bellezza‘ del regista Paolo Sorrentino, vincitore del premio Oscar come migliore film straniero (a quindici anni dal trionfo di ‘La vita é bella‘ di Roberto Benigni) é stato definito da una radiosa Sabrina Ferilli, intervistata da Stefano Masi, come un film ‘con tante anime‘, ovvero con tanti drammi interiori da raccontare.
Molti hanno paragonato questo film a ‘La dolce vita‘, anche se Fellini non riuscì a conquistare l’Oscar, ma dovette accontentarsi soltanto della Palma d’Oro di Cannes. Seppur Jep Gambardella non regga certamente il confronto con Marcello Rubini, interpretato da un impareggiabile Marcello Mastroianni, anch’egli é un giornalista che vive di notte, conducendo un’esistenza frivola e vanesia nel cuore della città eterna. Anche Jep si circonda di gente vacua e superficiale, come ad esempio uno scrittore fallito (Carlo Verdone), una spogliarellista amareggiata (Sabrina Ferilli), una riccona snob ed annoiata (Isabella Ferrari), un’ex soubrette platealmente sguaiata (Serena Grandi) nonché un prelato goloso (Roberto Herlitzka). Il regista si sofferma quindi su varie tipologie di persone, che hanno dei tratti anche grotteschi, come se fossero anime da circo sospese nel nulla, ciondolanti in un vuoto morale ed esistenziale. È gente che parla solo per ingannare il tempo, ma che in realtà non dice nulla di consistente. È la fatale rassegnazione di colei che dice di non essere ‘portata per cose belle‘, o di colui che ammette di essere stato non solo deluso, ma anche deludente, e di buttare via il suo tempo inutilmente. Queste persone, che stravolgono il corpo con le venali prodezze della chirurgia estetica, affondano nel grembo dell’opulenza, del vizio, dell’auto-distruzione.Il mondo descritto da Sorrentino è una gabbia di matti, dove però l’unico vero pazzo è ritenuto colui che legge Proust, ovvero colui che riflette, che vuole intendere la vita seriamente. La bambina che dipinge, e che dovrebbe proiettare verso una speranza, è invece piena di inquietudine, di disperazione interiore, di rabbia repressa. L’incontaminata città del passato archeologico, culla di una civiltà millenaria, stride fortemente con degli individui che invece sembrano non avere un senso di appartenenza, che sono totalmente dislocati, che devono fotografarsi ogni giorno per dare un senso al tempo che passa, per creare dei ricordi, dei segni tangibili della memoria. Verso la fine del film Gep viene in contatto con un esempio di spiritualità, incarnato da una suora ultra-centenaria che vive in assoluta povertà, nutrendosi di radici e dormendo al suolo su dei paglicci, e che muore in prossimità dell’ultimo gradino della Scala Santa. Soltanto in questo frangente il mondano Gep deciderà di iniziare a scrivere il suo secondo libro (il precedente, non a caso, era intitolato ‘L’apparato umano‘) e quindi di dare una svolta alla sua vita.
Nel film ‘E la nave va‘ di Federico Fellini, del quale lo scorso anno è ricorso il trentesimo anniversario, compariva un altro giornalista, di nome Orlando, che elegantemente commentava (rivolgendosi agli spettatori, e quindi rompendo l’illusione scenica) ciò che avveniva su un translatlantico (il Gloria G.), diretto verso l’immaginaria isola greca di Erimo, al fine di disperdere in mare le ceneri di una famosa soprano, Edmea Tetua. Nel film di Sorrentino (che, forse non a caso, si apre con una citazione del pessimista Celine sul viaggio) perfino il funerale diventa spettacolo, e occasione di mero esibizionismo, ovvero svuotato di autentico significato. I viaggiatori felliniani (quasi tutti appartenenti al mondo della musica lirica), invece, commemorano sentitamente la personalità di Edmea, che vive fortemente nella sua assenza. I personaggi felliniani vengono dignificati, cosicché ognuno possa esprimere, e con grande democraticità, il suo punto di vista. I lavoratori della sala macchine, ad esempio, diverranno pubblico di un’improvvisata competizione canora, così come i serbi che saliranno a bordo della nave creeranno un suggestivo connubio fra opera lirica e folkloristica. Perfino il rinoceronte che soffre di solitudine (e che diverrà l’antitesi della giraffa che in Sorrentino verrà fatta ‘sparire‘ da un prestigiatore) potrà innalzare, a suo modo, un grido di protesta.I personaggi di Sorrentino vengono invece degradati, e la figura dell’artista (qualsiasi aspetto essa assuma) viene mortificata, resa simbolo di assoluta mediocrità. Non a caso, del resto, il film di Fellini é ambientato nel 1914 e non nel terzo millenio come quello di Sorrentino. Fellini sperimentava con la macchina da presa e creava un ‘film nel film‘, perché sapeva che le innovazioni metodologiche, come quella ‘pirandelliana‘ di annullare i confini fra realtà e finzione, avrebbero offerto all’arte una speranza di rigenerazione. Gep, invece, decide di scrivere il suo romanzo dopo aver inutilmente tentato di trovare ispirazione in quella dimensione umana alla quale egli stesso appartiene, e che diventa la quintessenza del nichilismo. O, meglio, che diventa nulla più che una grande amarezza.