Una delle armi più efficaci dei buoni commerciali è sapersi intrattenere con i prospect – i potenziali clienti – per riuscire a girare intorno al nocciolo della questione che è vendere, indipendentemente da che cosa, senza andare diretti al punto e apparire così sfrontati in eccesso e turbare la sensibilità con la mancanza di delicatezza. Per questo i buoni commerciali non dovrebbero essere delle bestie da fatturato e basta o, per lo meno, darlo a vedere il meno possibile mascherando il tutto con modi e buone maniere tali da conquistare la fiducia tanto da essere complementari al valore del prodotto da piazzare almeno fino a quando non si risale in macchina al riparo con la firma sul contratto e oltraggiare a piacimento le proprie prede bullandosi del successo con i propri colleghi guidando verso casa, rigorosamente via bluetooth. La fuffa esige però una capacità di convincimento sovrumana mentre per le cose effettivamente funzionanti basta poco. Nel mezzo c’è la vastissima gamma delle botte di culo di trovare nel minor tempo possibile i punti in comune con chi si ha davanti e sfruttarli per aprire un canale di persuasione. A volte scatta la scintilla e a volte no, un po’ come in amore. Solo che in affari se non si riesce a far innamorare nessuno non esiste l’equivalente del solo sesso o, peggio, del piacere a pagamento. Sul lavoro se non raggiungi la quota dopo un tot di occasioni sei fuori. Ciò impone a questi professionisti del portare a casa il risultato di saper intrattenere conversazioni su un po’ di tutto, avere argomenti con cui creare la confidenza con le persone in momenti in cui si deve ostentare disinteresse al business, come a pranzo con le gambe sotto al tavolo. In generale, come si può immaginare, ci sono temi standard con cui è facile scambiare un parere, perché anche il cosiddetto più e meno segue le mode del momento. Con l’enogastronomia mai come di questi tempi si corrono rischi, probabilmente perché il genere umano, nel nuovo millennio, in carenza di certezze si butta sui piaceri più rassicuranti e riempire la pancia a garanzia dello svolgimento di tutte le altre funzioni è indubbiamente un fattore di conforto. Voglio dire, basta accendere la tv per trovare su un canale qualunque qualcuno che spignatta o valuta pietanze preparate da altri. Avere competenza in fatto di vini o di preparazione di piatti da chef, poi, per molti è sinonimo di classe e raffinatezza il che, se ci pensate, è un controsenso perché si tratta di piaceri primordiali, di sostanze che poi all’interno del nostro organismo si trasformano sino allo stato meno nobile di tutti, quello che poi viene espulso in un modo o in un altro. Tutto questo per dire che, con me, i commerciali cascano male perché non mi intendo di nulla di tutto ciò. Bevo vini da supermercato e considero l’alimentazione poco più che fare benzina prima di mettermi in viaggio. Una volta un venditore di un noto aspiravolvere, appena aperta la porta di casa mia, ci mise davvero meno di un secondo nel trovare un argomento per rompere il ghiaccio. Tanto di cappello. C’era una copertina di un disco di David Sylvian sul tavolo, che lui scambiò per il tastierista dei Duran Duran. Non sarebbe riuscito a convincermi comunque, ma come potete immaginare la conversazione fini così. Non sempre le cose vanno come uno è abituato a condurle.
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