Carta numero VI
“E forse lei non è bella. Ma è tutto ciò che so sulla bellezza.”
<Hai un futuro come ladro, lo sai, John?>
E quando si chiuse la porta alle spalle, l’Arlecchino non si preoccupò di poter fare rumore.
S’erano intrufolati in un appartamento privato al primo piano di un palazzo. Non erano serviti attrezzi da scassinatore, né passamontagna per rapinatori di un giovedì pomeriggio afoso. Milton si era limitato a estrarre dalla propria tasca una chiave arrugginita, di quelle che posseggono solo certi armadi con dentro vestiti fiorati ammuffiti e sacchetti di lavanda. Il suo accompagnatore l’aveva inserita, senza pensarci troppo, dentro ogni serratura che s’erano trovati a dover aprire per arrivare fino all’ingresso. Un passepartout universale della grandezza di un palmo di mano di maschio adulto.
C’era odore di fragranza per ambienti alla peonia e un arredamento in stile provenzale. Prevalevano linee semplici e toni chiari, come il proprietario avesse voluto ricreare un mondo nel mondo,custodire dentro un’ampolla di legno e trine un vivere anacronistico.
<Ci dimeniamo tanto per costruire delle vite…>, disse l’Arlecchino, mentre afferrava curiosamente una cornice d’argento da un tavolino ovale < …per poi cercare il modo più sbrigativo per sbarazzarcene. Non lo trovi folle, John?>
Una coppia. Una come tante. Una con una storia come mille altre da poter raccontare davanti a un camino a dei nipotini annoiati. Ecco cosa riportava per lei quella foto. Se ne stavano abbracciati l’uno all’altra, con una parete di edera alle spalle. Avvinghiati come il rampicante fa col suo ospite. Dovevano avere circa ottant’anni. E sembravano felici.
<…Tenendosi per mano, con passi erranti e lenti attraverso l’Eden presero la loro via solitaria. > sogghignò l’Arlecchino in direzione del proprio accompagnatore. Scandì quell’affermazione con un gesto teatrale del braccio, come stesse invitando ad accorrere un pubblico invisibile.
<Non dovresti essere così cinica, mia Signora, o mio Signore…> si limitò a replicare elegantemente Milton. Al contrario di lei, cercava di utilizzare la maggior cautela possibile là dentro. Cortesia. Rispetto. Buonsenso. Paradossalmente, per lo scrittore quelle parole avevano tutte lo stesso significato.
<E’ farina del tuo sacco, mi pare, John…> precisò puntigliosamente l’Arlecchino, decidendosi infine a riporre la cornice là dove l’aveva sottratta. Era questo il potere che Milton sapeva esercitare il più delle volte su di lei: la faceva sentire “scortese”, come una bambina cui si tenti invano di spiegare il galateo.
<Ci siamo detti troppe parole da allora perché io possa ricordare.>
<Ma queste, sono certa, non le dimenticheresti facilmente.>
<Seguimi.> E suonò come un ordine, un improvviso accenno di imperio, eppure l’Arlecchino non ne rimase infastidita. Era lei. In fondo, era ancora lei.
E, senza accendere le luci, si fecero strada in un corridoio stretto e lungo. C’erano quadri, ovunque. Ovunque, al punto da occultare interamente la carta da parati sulle pareti. E, seppure di per sé sarebbe bastato il numero a rendere stravagante quella composizione, furono i soggetti rappresentati a turbare l’Arlecchino. Un ciondolo a forma di albero di mele. Due poltrone d’un azzurro gentile. Una scatola per cucito con dentro un numero imprecisato di fili di nylon multicolore. Una fetta di torta ricoperta di glassa bianca.
<Deve avere una fantasia notevole per scarabocchiare…> Quell’idea la infastidiva. Il pensiero di tutti quei potenziali “ti amo” stampati sopra una confezione di cioccolatini, per farsi perdonare magari una scappatella con una procace assistente. Tutte quelle unioni da tabloid con la scadenza incisa nel retro. Era successo anche a lei? Anche lei si era ritrovata a cantare sotto la doccia “Diamonds are a girl’s best friend” dopo l’ennesima litigata con un fidanzato senza volto?
E poi Milton la invitò ad entrare nella camera da letto più insolita in cui avesse mai messo piede.
Decine, centinaia di tele dipinte giacevano accatatastate le une sulle altre, come infinite inquadrature nell’esistenza di un totale sconosciuto. C’erano volti di persone giovani e anziane, tazzine scheggiate, targhe di automobili e modellini di carta per vistosi abiti. Una mnemonica collezione immortalata dalle tempere. Il film di due esistenze ricavato dentro quattro pareti.
E solo allora l’Arlecchino se ne rese conto. Al centro della stanza era posizionato un letto matrimoniale su cui se ne stavano due sagome. Una donna anziana, con una lunga treccia adornata da una peonia bianca, era distesa in un sonno mite. Un uomo, accovacciato al suo fianco, s’era addormentato sul suo petto. Aveva i polpastrelli usurati, intrisi di colore e un pennello consumato era incastrato tra le sue dita rugose.
<John…> E l’Arlecchino non fu in grado di pronunciare nulla di più sensato. Nulla di più significativo del proprio passato.
<Era il suo fiore preferito… la peonia. Ogni mattina lui ne compra una nuova dal fioraio per vederla fiorire tra i suoi capelli. >
<Lei…?>
<Si è smarrita, mia Signora. Dentro un sonno che ha intrappolato ogni cosa.> E la voce di Milton si incrinò a quelle parole. Per la prima volta da quando l’aveva ritrovato, l’Arlecchino ebbe la sensazione che gli fosse difficile aggiungere altro. Fu come un sottile graffio su una gemma, percettibile solo alla vista di un orefice esperto.
<Da principio ebbe inizio con piccole perdite di memoria. Prima vennero i numeri. Comincia sempre così. Telefoni. Date. Orari. Poi i luoghi. Vie. Cortili. Case.Solo alla fine, fu la volta dei Nomi. Perché i conti possono non tornare. Possiamo smarrire la retta via o quella del ritorno. Ma le Parole hanno il compito di ricondurci da coloro che amiamo. Li chiamiamo, a gran voce o in silenzio. Affinché ci riportino al punto di partenza.> Una lunga pausa intervallò quel discorso. Milton sembrò dover prendere un respiro. Addurre la scusa d’un corpo umano per poter andare avanti.
<Era un pittore, un eccellente ritrattista. Così, finché fu sveglia, fece per lei ciò che gli riusciva meglio: dipinse per la donna che amava la loro vita, i dettagli minuziosi che l’avevano arricchita, ciò che l’aveva resa felice in un tempo giunto alla fine. Pur sapendo di non poter vincere, schierò i suoi ricordi su centinaia di tele. Per lei. >
E l’Arlecchino lo vide chinare il capo. Lo osservò dover accettare il suo stesso racconto.
<Io la sveglierò, John!> sentenziò l’Arlecchino, cercando di concentrarsi sul suo sangue. Richiamò a sé quel liquido addensatosi dentro le arterie. Ma non ci fu battito. Nè altra risposta. Non stavolta.
<Ma che…?>
<Non ne hai il potere.> e Milton sembrò sconcertato. E, al contempo, sollevato da un orrendo timore.
<Io posso tutto! Sono o non sono…>
<Non ne hai il potere. > la interruppe lui, prima ancora che potesse dar seguito a quella sua protesta. <Non puoi creare la vita. Né riportarla indietro.>
E un senso di smarrimento pervase l’Arlecchino. Si sentì fiaccata, impotente di fronte a un concetto tanto elementare. Quattro lettere. Non riusciva neppure a opporsi a quattro lettere. Dove era la magnificenza promessa? Dove la signoria del Matto? Dove era finito lo splendore del grande Buffone?
Si guardò le mani, come in cerca di una soluzione. Prestò attenzione alle linee sottili cui ciarlatani e fattucchiere attribuiscono caratteristiche profetiche. Le sue le parvero sbiadite. Del tutto inconsistenti.
E fu allora che comprese. Soltanto chinando la testa comprese cosa le restava da fare.
<Non posso creare la vita, né riportarla indietro…> ripeté, quasi meccanicamente.
E mosse un passo. Poi un altro.
In fila.
Lentamente.
Così.
Lentamente.
Un tintinnio dissonante invase la stanza, rimbalzando da una tela all’altra, come una biglia impazzita.
I colori, prima sfavillanti del suo strascico di pezze, si incupirono a poco a poco. Dalla gonna fino al corpetto tracciarono una notte di stoffa.
<E’ tutto quello che ho da offrire> disse tristemente. E, al loro cospetto, si inginocchiò. Tra cento e cento ricordi portati alla luce, lei che perdeva i propri, si inginocchiò. Davanti all’Amore che tutto protegge, lei si inginocchiò.
Qualcuno che se ne stava nascosto dentro la sua testa provò a ridere, beandosi del proprio potere. Ma, per la prima volta, lei non glielo permise. Con tutta la determinazione che aveva, lei gli si oppose. E, se anche lui si fosse vendicato, se anche fosse stata solo una vittoria momentanea sul Matto, lei se ne assunse la responsabilità.
Non ci furono risate nell’aria. Non un solo suono, escluso quel solitario campanellino.
E quando si alzò in piedi non poté fare a meno di chiedersi se davvero rimanesse solo quello, alla fine. E se ne fosse valsa la pena. Per loro. Per ciascuno. Per ciascuno di loro.
Infine si chinò su quei due corpi stanchi, ma imbattuti nel loro legame, e con cura li avvolse in quella matassa di capelli rossi, ricavando da se stessa una culla.
Mentre ancora si tenevano per mano, baciò le loro palpebre stanche. Le baciò con amore. In nome di ciò che fa di un amante un Innamorato.
Dalla peonia che quell’anziana signora ancora indossava, staccò un petalo bianco, riponendolo in una tasca invisibile.
Poi.
Fu.
Silenzio.