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Tarots- The magician

Creato il 17 marzo 2012 da Thefreak @TheFreak_ITA

Carta numero I

Il Bagatto

“Come hai potuto perdonarmi?”

“Non ho mai dovuto farlo. Tu sei il mio sangue. E nessuno può perdonare il suo sangue.”

 

Quando si decise ad alzarsi in piedi, capì quanto fosse relativo il concetto di “peso”.

Gravità. La Gravità appartiene a quanti portano un bagaglio. Che sia di stoffa o carne ha poca importanza.

Sono i giorni sperperati, le ore consumate, i sogni frantumati, a rendere pesante il corpo.

Lei era nata da poco. E non c’era alcun passato di cui dovesse farsi carico.

Il mondo, quel mondo, era venuto dietro alla sua risata.

Decine di luci si erano accese, mostrando un inferno fatto di scenografie sovrapposte le une alle altre.

Compensato e chiodi. Sfondi di teatro, normalmente immobili, che si muovevano. Alberi dipinti, d’un violaceo innaturale, i cui rami rinsecchiti si scuotevano, simili a vene rigonfie.

Un fiume lattiginoso, bianco a tal punto da ferire la vista, che scorreva. Un flusso che veniva tagliato e ripreso in ogni scena. Senza fare rumore. Che niente là, ad eccezione di lei, si sarebbe permesso di produrre un suono.

Un senso di familiare smarrimento le si attaccò ai pensieri. Banchettava con loro.

Conosceva quel posto. Lo conosceva fin troppo bene. Eppure non ci aveva mai messo piede.

Quello era… che suono aveva quella parola?

< Bentornato a casa.>

“Casa.” Quattro lettere. Ecco com’era…

La voce proveniva dalle proprie spalle. Là dove tutto giaceva ancora in ombra. Assopito. Tenebra e freddo.

Suonava come un riconoscimento solenne. Qualcosa di già predeterminato. Una sorta di rituale d’ accoglienza, come certe regali presentazioni a corte.

Una sagoma ricavava se stessa dal buio. Si staccava da lui. Ne prendeva le distanze.

Indossava una giacca dai quadretti minuscoli sul beige e un paio di pantaloni eleganti di velluto blu. Occhiali da vista con montatura quadrata nera.

Era più grande d’età. Molto più grande di lei. Lo si sarebbe detto sulla cinquantina. Un bell’ uomo, decisamente. Un docente universitario o forse un giornalista. Lo stampo era quello. Aveva un non so che di sobriamente raffinato.

Teneva una penna d’ argento tra le dita. E avanzava verso di lei.

<Bentornata a casa.>

Lo ripeté. Ancora una volta. Una ancora dentro quel silenzio altrimenti liquido. Fluido e ovattato al contempo.

<Questa non è casa mia…>Le uscì fuori d’ istinto. Con una punta di risentimento mescolata al rossetto fin troppo acceso.

<Se non lo è,  prova a descrivermi com’è quella vera.> Naturalezza. Lui era totalmente a suo agio, lo si poteva percepire chiaramente. Si fermò a qualche passo di distanza da lei, per una forma di inusuale rispetto. La scrutava dall’ alto in basso. Ma senza. Giudizio. Ma senza. Superbia.

<Io…> Dov’ era la sua dimora? Quale era stato il suo indirizzo? Una confortevole villetta in campagna? Un monolocale striminzito da condividere con altri due inquilini? Un loft in pieno centro? E al centro di cosa? Ogni volta che provava a concentrarsi su domande del genere, tutto diveniva vuoto. Una bottiglia di ottimo vino rosso svuotata fino all’anima. Ecco cos’era la sua memoria.

<Tu sei il  Re. E sei tornato, finalmente.>

<Io sono una donna!> E, nel pronunciare quella frase, ostentò il proprio aspetto. Lei era bella. Sì, ne era quasi certa. Doveva essere stata bella per forza. Non uno di quegli spauracchi senza curve. Una ragazza da urlo. Uno “schianto” da crash-test. Il sogno proibito di ogni esponente sano di mente e prostata del genere maschile.  Se no perché avrebbero dovuto scegliere lei?

<Questo è irrilevante.>

La penna rifletteva la luce d’un faro posto molto più alto di loro. Conferiva una luminosità del tutto diversa a quell’uomo. Ne definiva i tratti. Creava chiaroscuri addossati alla stoffa. Le ombre su di lui creavano ricami. Origami. Lettere. Ecco cosa sembravano.

Lei non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Quell’ oggetto era. Tanto tempo prima. Era. Il tavolino all’interno di un bar in una giornata piovosa. Era…

<Una Caran d’ache…>

Lo pronunciò a fior di labbra. Nostalgia. Mancanza. Una falla riaperta. Un taglio irregolare all’ altezza dei propri giorni.  C’era tutto quello dentro la sua voce. Sì, ma assenza di cosa? Di chi?

<E’ già stato ormai. Siamo già stati. Ora non devi curarti di questo. > E, per un solo momento, quella sagoma abbassò gli occhi. Guardò altrove. Oltre. Stava guardando indietro. Da qualche parte. Dentro qualche altra esistenza.

<E tu chi sei?>

<Me ne hai dati di nomi, in effetti. Credo il più adatto per questa circostanza sia…John. Milton. >

<Il primo che abbia speso una buona parola per me. Già allora ti eri..>

Lo disse con ironia. O meglio, qualcuno dentro la sua cassa toracica lo disse con ironia. Qualcuno che ne sapeva molto più di lei. Qualcuno che andava oltre lei. E che, nondimeno, coincideva con lei. Provò ad alzarsi in piedi. Decine di campanellini tintinnarono da qualche parte. Se li sentì a fior di pelle. Bruciare. Richiamare una scintilla.  E le sembrò che i colori dentro le scenografie si fossero fatti di gran lunga più vividi. Più vivi. Letteralmente.

“Demiurgo”. Quel concetto le percorse le ossa, si incanalò lungo la spina dorsale e le si fermò alla base del cranio. Che significava “demiurgo”? Aveva a che fare con quel vecchio pazzo di Socrate. Doveva essersi trattata di una  lezione di filosofia. Magari era stata una studentessa saputella che si vestiva sempre di nero e mangiava solo cibi biologici. Oppure  una annoiata hostess di voli di linea che, per passare il tempo e non pensare alle vesciche ai piedi, si concedeva qualche tascabile in versione economica.

<Dobbiamo andare…e, come sempre, io ti accompagnerò. Finché potrò. Io ti accompagnerò.> Lui le tese la mano. Dolcemente. Come fosse la cosa più ovvia tra loro. Un gesto talmente spontaneo da non richiedere delucidazioni. Era loro. Semplicemente. E nel farlo fu come se lei, decine di esistenze prima, gli avesse spezzato il cuore.

 


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