Appena Juncker si è deciso ad illustrare urbi et orbi da dove diamine avrebbe tirato fuori 300 miliardi per finanziare progetti d'investimento, e abbiamo sentito che in effetti i soldi disponibili erano una ventina di miliardi (meno di un miliardo, in media, per ogni paese dellaUE), ci siamo affrettati a scrivere un post per definire la trovata di questo guru degli evasori fiscali una "cagata pazzesca". La "trovata" di Junker era che per ogni euro messo in circolo dalla UE, miracolosamente i pesci e i pani si sarebbero moltiplicati per 15 (uno di Junker, 14 da "varie ed eventuali"), con un "leverage" (o effetto moltiplicatore), mai osservato sulla terra o su altri pianeti del sistema solare.
L'unico terrestre disposto a far finta di credere a questa minchiata è stato - manco a dirlo - il Bischero di Frignano, il quale non solo ha rivendicato il merito di aver chiesto all'Europa questi colossali investimenti (di cartongesso), ma ci ha spiegato che era stato lui, per essere precisi, ad IMPORRE (sic) all'Europa questa decisione "epocale". Meglio così. Finalmente sapremo a chi attribuire il merito, quando il cartongesso non si trasformerà in cemento armato.
Sull'Espresso in edicola questa settimana il tema è ripreso da una "penna" molto più autorevole della mia. Vediamo cosa scrive Riva sulla "sòla" targata Renzi-Junker:
Tartufo Junker e i soldi fantasma (di Massimo Riva)
I
Azzoppato fin dall'esordio per lo scandalo dei gravi abusi fiscali compiuti dal suo Lussemburgo a danno degli altri soci dell'Unione ("L'Espresso" nn. 45 e 46), lo scaltro Juncker sta cercando di salvarsi facendo fumo attorno a se stesso e alla sua politica come le navi colpite ma non affondate. Si tratta però di tentativi così disperati che denunciano da soli l'inconsistenza ingannevole dei suoi propositi.
È questo il caso clamoroso del tanto propagandato piano d'investimenti da 300 miliardi per il rilancio della crescita. Già prendendo per buona simile cifra ci sarebbe da obiettare che essa risulta molto lontana dall'entità che sarebbe necessaria per dare un efficace choc positivo a un'economia continentale da troppi anni depressa. Per avere una misura delle grandezze utili, basta ricordare che l'associazione degli industriali europei stima che per rimettere davvero in moto il sistema bisognerebbe mettere in campo un migliaio di miliardi. Oltre tre volte, dunque, il piano Juncker e in tempi più rapidi.
MA C'È BEN DI PEGGIO. Chi si sia preso la briga di andare oltre la nebulosa cortina degli impegni proclamati dal presidente della Commissione ha scoperto che il suo fumo non nasconde arrosto: i 300 miliardi, in realtà, non ci sono. Nel migliore dei casi restano un'ipotesi poiché questa sarebbe la luminosa idea di Juncker: mettere sul piatto circa 16 miliardi ricavati da residui o tolti da vari capitoli del bilancio comunitario che, sommati ad altri 5 messi a disposizione dalla Bei (Banca europea degli investimenti), darebbero una dote di 21 miliardi. E qui scatta una simulazione che farebbe impallidire d'invidia anche gli inventori napoletani della banconota da 300 euro. Secondo i calcoli di Bruxelles, infatti, quei 21 miliardi iniziali, per mezzo di una leva finanziaria da 1 a 15 sui capitali privati, saranno in grado di mobilitare investimenti non più per 300 ma - oplà - addirittura per 315 miliardi.
Qualche critico puntiglioso ha ricordato che un moltiplicatore da 1 a 15 non lo si è visto all'opera neppure ai tempi della più allegra turbofinanza. Molto più francamente occorre notare che simili acrobazie aritmetiche denotano qualcosa di peggio di una maldestra manipolazione contabile. Esse, infatti, non riescono a nascondere la sottintesa scommessa di riuscire a prendere un po' per scemi tutti gli interlocutori europei, dai governi nazionali fino ai singoli cittadini.
INFELICE AZZARDO che lo stesso Juncker, però. vorrebbe replicare anche sulla già richiamata questione dei regali fiscali che il Lussemburgo da lui governato ha elargito a piene mani alle grandi aziende di altri paesi comunitari con danni gravi e persistenti ai rispettivi bilanci erariali. In una recente intervista costui ha avuto dapprima la spocchia di affermare: «Noi non volevamo danneggiare gli altri paesi». Poi ha soggiunto che, a ritroso, rifarebbe comunque tutto quel che ha fatto in materia di tasse limitandosi a precisare: «Ma forse guarderei più in dettaglio alla legislazione fiscale, che non era di mia diretta competenza». Come a dare a intendere che in Lussemburgo i peggiori favoritismi tributari potevano essere tranquillamente negoziati con aziende dai nomi altisonanti a totale insaputa del primo ministro. Forse neppure lo sventurato Scajola avrebbe avuto il coraggio di spararla così grossa.
Lascia davvero sconcertati che a un simile Tartufo sia stata rinnovata la fiducia da parte del gruppo socialista europeo che dovrebbe essere il più sensibile ai temi sia degli investimenti sia della concorrenza sleale in materia fiscale. Neppure Molière se lo sarebbe spiegato.
Massimo Riva - l'Espresso 05/12/2014