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tata Rocco

Creato il 29 maggio 2012 da Cultura Salentina

di Lucio Causo

vecchio

ph. Buga, Il vecchio e il mare (e il bambino e la scogliera e il faro) – (2008)

Vi racconto la storia dell’incontro di un vecchio e di un fanciullo avvenuto tanti anni fa al mare. Una storia vera, come vera è oggi la vita che scorre fra le bianche case di Torre Muzza, un piccolo borgo che sorge sulla nostra costa, proprio di fronte al mare azzurro dello Ionio.

Potrei cominciare come nel racconto delle fiabe:

C’era una volta un vecchio pastore che si chiamava Tata Rocco. Egli viveva libero e beato nelle campagne della Serra, fra secolari alberi d’ulivo, caseddhi e vigne profumate d’uva nera.

Lo incontrai un giorno, verso la fine della guerra, seduto come un re sullo scoglio più alto della costa. Di lassù si dominava il cielo, la terra e il mare. Mi accolse con gioia; di certo aveva notato nei miei occhi di ragazzino, lo stupore e l’incantesimo che mi avevano preso di lui e di quel luogo meraviglioso che io vedevo come un paradiso di luci e di colori; il paradiso dei miei sogni più belli: la natura in festa, in pieno sole e gli uomini buoni, semplici e sereni, come quel vecchio che stava di fronte a me, pieno di vita e di salute. Così sognavo il mondo degli uomini! E malgrado tante delusioni, lo sogno ancora, lo spero e lo desidero, se non per me, per quelli che verranno.

Io non mi sono dimenticato di Tata Rocco ed ascolto ancora oggi le parole che, da fanciullo, mi sono rimaste nella mente e nel cuore. Mi ricordo le storie che mi raccontava, le filastrocche e i proverbi che mi recitava con tanto amore e tanta dolcezza.

Nel corso degli anni, nei momenti di maggiore tristezza, pensavo a lui e dicevo fra me: “Se un giorno riuscirò ad acquisire un po’ di quella grazia nel dire le parole e nel raffigurare le immagini, come faceva Tata Rocco a quel tempo, allora sì che racconterò anch’io ai bambini tante storie per far loro apprezzare di più la vita e le cose belle del mondo”.

Quando le vacanze al mare stavano per finire, mi disse: “Mi dispiace che te ne devi tornare al paese. Laggiù, certi uomini ti saranno di cattivo esempio. Quanto vorrei che tu non diventassi come loro!”. Io ascoltavo le parole che Tata Rocco mi diceva proprio col cuore, appassionatamente e accoratamente, ma non capivo.

 “Non sono uomini liberi”, aggiungeva, “sono un branco di schiavi, presi dalla smania di possedere danaro, solo danaro, con l’intento di toglierlo agli altri, per invidia. Una smania che li rende sempre più insaziabili e sempre più miserabili. Si credono civili e non hanno occhi per vedere il cielo, non hanno orecchi per ascoltare il canto degli uccelli, non hanno mani per accarezzare e benedire proprio quella terra che dovrà pure accoglierli nel suo grembo. Odiano, invece di amare, hanno l’ira nel cuore e la menzogna sulla bocca…”.

Tata Rocco parlava, parlava ed io, seduto di fronte a lui, l’ascoltavo e lo guardavo incantato.

“Oggi, tu, non puoi comprendermi; ma io sento che per questa tua vivida franchezza che porti segnata in viso e nei tuoi occhi… io so che soffrirai e piangerai e solo allora mi comprenderai. E se non sarai forte, perderai il valore della vita, perché solo la vita può vincere la morte”. Mentre Tata Rocco mi diceva queste parole, io, in cuor mio, ripetevo, sarò forte, sarò forte e vincerò!

Sono passati tanti anni… e oggi so che ho sofferto, che ho pianto e che ancora sto lottando per vincere nella solitudine la vita che ci affanna.

Caro Tata Rocco, oggi ti capisco veramente e dolorosamente.

Ti rivedo, mio caro vecchio e grande amico, con la tua consueta camicia a righello bianco e celeste e con quel tuo giubbetto di grosso panno blu. Eri tutto lindo e pulito, come vestito a festa, e in tutta la tua persona notavo stranamente un certo che di terso, di limpido come di cristallo.

Rivedo quel tuo viso roseo e levigato, temprato dal vento e dal sole, ed i capelli serici e bianchi che avevano i riflessi delle madreperle.

Nei tuoi occhi vedevo le trasparenze del cielo e i riverberi del sole sulle pietre della Serra e sul mare azzurro dello Ionio che s’intravedeva dallo scoglio dove ti sedevi a riposare.

Rivedo ancora quel tuo grosso bastone da pastore e quel tuo gregge bianco e opulento che pascolava d’attorno, tra i sassi sempre poveri di erba fresca. Non so ancora spiegarmi come tu facessi a nutrire le tue pecorelle ed a tenerle così pulite e mansuete.

Rammento il tuo arguto sorriso, la tua maestà ed il caldo e dolce suono della tua voce, che ancora oggi  sento vibrare come una musica, nel mio cuore.

Caro Tata Rocco, ti ricordo sempre, ammirandoti ed amandoti, come se il tempo non fosse passato!  Potessi vivere anch’io come tu vivevi nell’aria libera e profumata della Serra di Torre Muzza.

Ora devo dirti addio, mio gran vegliardo, ma ti assicuro che posso ancora ascoltare la tua voce con lo stesso animo di tanti anni fa… gli anni di quando ero fanciullo.

Ti sento ancora nelle fresche sere d’estate al mare… mi cantavi con voce suadente il mistero di quella tua dolce nenia.

Tata Rocco, ti prego, fammela ascoltare per l’ultima volta, cantala solo per me, se gli altri non vorranno capire la semplicità del tuo spirito e della tua vita.

O Signore, mio Signore,

ci sopporti e ci perdoni

e ci porti tanti doni

che ci spandi tutti intorno

ad  ogni ora di ogni giorno…

Sono i doni del tuo amore

per chi vive e per chi muore…

Era un canto popolare di antica memoria che Tata Rocco intonava nel suo dialetto incomprensibile con un candore e accoramento senza confini.  


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