Alcuni spari, grida della folla che si disperde, due ragazzi che fuggono, un’auto della polizia che li rincorre: sembra una pellicola degli anni settanta, uno di quei poliziotteschi tanto cari agli amanti del cinema di genere, invece è Tatanka, l’atteso film tratto dal racconto di Roberto Saviano La bellezza e l’inferno, diretto da Giuseppe Gagliardi e prodotto dai Rai Cinema e Minerva film.
Neanche il tempo di capire cosa è successo e ci troviamo catapultanti nei feudi della camorra, in cui lo stato arranca, la malavita domina, dove crescere senza passare attraverso le maglie del boss locale è praticamente impossibile. Le atmosfere sono quelle iperrealiste alla Gomorra, gli attori recitano in dialetto, i dialoghi sono sottotitolati: in poche parole un déjà vu.
Ciò che doveva costituire la specificità del film – la storia dell’emancipazione di un promettente pugile – si appiattisce su uno schematismo anch’esso di genere (di tutto quel cinema sportivo ampiamente digerito) che quando non annoia, certamente non entusiasma: il ragazzo dal cuore buono, suo malgrado, è costretto a intrattenere rapporti con il mondo in cui è nato, che sembra promettergli un sicuro avvenire, e, invece, lo trascina sempre più nelle sabbie mobili del compromesso, della violenza, negandogli l’avvenire radioso che meriterebbe. Ma Tatanka (“bisonte”), interpretato da Clemente Russo (campione del mondo dei dilettanti a Chicago nel 2007 e vicecampione olimpico a Pechino nel 2008), viola la regola della fedeltà e scappa a Berlino (attuale meta salvifica di tutti quegli italiani disgustati dal bel paese), dove partecipa a un torneo clandestino di boxe, una competizione estrema in cui non sono riconosciuti i titoli dei circuiti ufficiali e, nonostante la sua impreparazione tecnica, vince. Tornato a casa, per un lutto di famiglia, è pronto a fare i conti con il passato che lo attende. Ma il ragazzo (Carmine Recano) con cui era cresciuto – e a causa del quale aveva scontato, senza alcuna responsabilità, alcuni anni di galera - incaricato di eseguire l’esecuzione, non riesce a sparare il colpo; pagherà con la morte la pietà mossa dall’amore fraterno.
Insomma il debito viene rimesso, e Michele “Tatanka” può finalmente provare a dimostrare onestamente il suo talento.
La prima parte del film, seppur prevedibile, riesce a sostenersi sulla ruvidità di un iperrealismo, che, quando non smuove il cervello, almeno disturba lo stomaco; successivamente i toni cambiano, appiattendosi su timbri monotoni.
Conclusioni: il progetto, ideato completamente intorno al racconto di Saviano, che da solo avrebbe dovuto garantire la bontà dell’operazione, risulta, nel complesso, abbastanza mediocre. Chi scrive (e ha steso svogliatamente la scialba recensione) non ha letto il racconto e molto probabilmente non lo farà (ci sono tanti altri autori che meritano più attenzione), e si limita a segnalare l’ennesima operazione di basso profilo che ha usufruito dei fondi del Ministero per i beni e le attività culturali, in quanto riconosciuta d’interesse culturale.
Luca Biscontini