- Ritaglio di paesaggio
E’ un afoso pomeriggio d’agosto e Teresa sta soffrendo nella lettura di Jorge Luis Borges, Finzioni. Un testo che l’affascina per quanto le resti difficile da penetrare , alla stessa maniera dell’Ulysses di Joyce che aveva riletto a distanza di anni, e con l’aiuto di una guida che aveva finito per complicarle la lettura.
Non soffre tanto il caldo quanto la difficoltà di far suo l’autore.
E’ sistemata comodamente su una poltroncina di vimini in veranda, l’unico ambiente di casa vivibile quando il sole batte a ovest sullo studiolo e il soggiorno.
Sul tavolinetto un blocco notes, un dizionario di lingua inglese – l’inglese è il suo tallone d’Achille – un bicchiere di the freddo lasciato a metà.
Anche con Finzioni è alla seconda lettura, ma di Thon Uqbar, Orbis Tertius non riesce a cogliere più di quanto aveva già intuito alla prima. Ancora gli stessi punti impenetrabili le producono ora una sofferenza acuta, e si va convincendo con amara rassegnazione che a lei non è concesso trovare il filo d’Arianna per penetrare nei labirinti della creatività, e che non potrà mai accedere nei più profondi luoghi del pensiero dell’autore, proprio perché non è legittimata dal possesso di quel filo.
Ciò nonostante si ostina, testarda e disperata, ad avventurarsi nei testi più impegnativi per l’ insopprimibile convinzione di trovare una qualche felicità interiore, cavando dai libri l’anima dei rispettivi autori, per fagocitarla nella sua, piccola vorace anima di individuo mediocre.
Ritiene la mediocrità la sua malattia esistenziale e si logora a combatterla con ogni sforzo, non per l’ambizione di diventare un essere superiore, quanto per la necessità primaria di salvarsi da una vita banale che non le dà emozioni.
Di tanto in tanto alza gli occhi e lascia scorrere lo sguardo sull’orlo delle colline all’orizzonte mentre un ricordo l’assale.
ciao, mi chiamo Pessoa, disturbo?
- Che nome importante!
- eteronimico…
- capisco…devi amarlo tanto
- infinitamente
- anche a me piace molto, di lui ho letto “Il libro dell’Inquietudine” ed anche “Il Marinaio”.
- li conosco benissimo entrambi, parola per parola.
- che gioia incontrare una persona che ama leggere, chi sa perché ho idea che tu sia un letterato.
- ci sei molto vicino…
- ti invidio, devi essere una bella testa, una di quelle di cui mi capita di subire il fascino, senza potermi difendere.
- dici davvero?
- Si, fascino intellettuale, beninteso! Ma dimmi: com’è che sei venuto a cercare me?
- ho scelto il tuo nick!
- nelle liste ci sono tanti nick uguali al mio
- ed io ho scelto tra i tanti il tuo
- È solo un caso…
– credo che nulla accada a caso…
Sta scendendo la sera sulla strada e sulle case lungo il fiume, mentre il giorno mormora le ultime parole annegando nella corrente che lo porta via.
Un fischio chi sa da dove fende l’aria. Dai balconi salgono pianti di bambini per i giochi interrotti, urli di padri insofferenti ai pianti e ai giochi, e insieme il silenzio triste delle madri tra odori di cucina e rumori di stoviglie.
In questo tramestio di sera estiva che si ripete uguale, con le stesse voci, gli stessi urli, gli stessi odori, non c’è spazio per disegnare un sogno. Un cane randagio con la coda bassa gira e rigira intorno al bidone dei rifiuti, non c’è speranza nemmeno per lui.
Scorre il pensiero di Teresa nella corrente del fiume, ora più rapida ora quasi ferma, nei rigiri tra le canne, tra i sassi di bronzo, sui vecchi tronchi fradici. Affonda a momenti nel letto melmoso, poi torna a galla a seguire l’incerto viaggio di una foglia.
Le acque salvano a volte, altre volte travolgono.
Pensa a Mosè, a Edipo e a quante altre vite, affidate al caso, hanno trovato un destino di cui nessuno ha mai scritto la storia.
Storie di ogni momento, di nessuno e di tutti, che si perdono, non fanno testo, eppure si intrecciano alla vita, tessendo trame invisibili . Una parola, un colore, una musica, una poesia; tatuaggi impressi nell’anima che restano lì ad emozionarci per sempre.
Chiude il libro e nella luce scolorita del giorno si perde anche Borges.
Il blocco notes era rimasto aperto sul foglio bianco. Teresa avrebbe voluto scrivere la sua piccola storia , ma il flusso emotivo che l’attraversa la blocca. Le è impossibile trasferire certe emozioni sulla carta. Così, dinanzi al foglio bianco si lascia andare ad una semplice esercitazione di scrittura.
“ Il primo di un blocco da cento, di buona carta, bianco da impressionare, lo tengo sotto gli occhi almeno da un quarto d’ora, mentre giocherello con le dita a scorrervi sopra lievemente, quasi a propiziare un approccio. La penna tenuta a punta in su come un’antenna pronta a captare le onde di una qualche stazione emittente, segue lo scorrere lento e pensoso della mano in movimento. Scariche, fischi, aria che frigge, si alternano a vuoti spaziali, attraversati qua e là da impercettibili segnali confusi e lontani.
Seguo così strane rotte, navigando su ignote distese, guidata più dal caso che da un proposito e finisco per intercettare nell’aria una zanzara che a sirene spiegate, sta tentando di planarmi addosso. Le zanzare, diceva mia madre, a parte il fastidio, non sono in fondo così schifose e sporche come le mosche che si posano ovunque. Ricordo invece mio padre che nelle afose notti d’estate si alzava dal letto, armato del suo cuscino e si aggirava per casa con passo felpato, il corpo pronto allo scatto, fino a quando non ne stanava una e la schiacciava contro il muro, istoriato così sempre di nuovi trofei. Poi se ne tornava tranquillo a dormire, rigirando il cuscino dall’altra parte.
Noi bambini sentivamo aleggiare la sua presenza sopra i nostri lettini e ci abbandonavamo più felici al sonno, cogliendo il quel suo vegliare una sensazione rassicurante.
La mamma, da perfetta igienista, si preoccupava di giorno delle mosche e spruzzava DDT a ripetizione, e ci cacciava fuori per paura delle intossicazioni. Così con la scusa del DDT ci perdevamo per interi pomeriggi, a volte fino a sera, nelle case dei contadini vicini, a giocare con gli altri bambini sulle aie, dietro i fienili, davanti alle stalle, tra nuvole di mosche che ci facevano festa intorno.
Ma che stupidaggini sto scrivendo!Se ci rifletto , scrivere è come come fare l’amore. Se pensi a come e quando farlo, non lo fai mai. E’ come cercare di catturare bolle di sapone nell’aria.
Le bolle di sapone mi ricordano Lina. Una bambina affacciata alla finestra di casa , che giocava a fare bolle di sapone per interi pomeriggi. Aveva un bicchiere in mano e una cannuccia in bocca. Il sapone le entrava nelle narici e nella gola. Starnutiva e con gli occhi rossi continuava a soffiare. Solo di rado si formava un palloncino che non andava lontano. Il sapone da bucato non andava bene, ma lei non lo sapeva e pensava a Paola la sua compagna di scuola, che con un soffio ne faceva tante di bolle, di tutte le misure e di ogni colore. Paola sorrideva tra cento bolle leggere che le danzavano intorno e non starnutiva mai.
La mano ora resta immobile sul foglio. Avvilita per il mancato miracolo creativo ha abbandonato la penna. Teresa si sofferma a guardarla come fosse un pezzo separato dal suo corpo, cercandone la storia nelle fitte grinze della pelle ispessita, nelle piccole cicatrici da casalinga, nei percorsi tortuosi e verdastri delle vene rigonfie.
Sarebbe rimasta a guardarla per tutta la sera, a pensare o forse a scrivere ancora, se il brusio delle voci dentro casa non l’avesse raggiunta come un richiamo severo. Si era fatto tardi.
Allora si alza, riordina velocemente le sue cose, deve affrettarsi a preparare la cena.
* foto tratta dal web