Magazine Cinema

Taxi Driver (1976)

Creato il 27 febbraio 2016 da Af68 @AntonioFalcone1
Robert De Niro e Martin Scorsese

Robert De Niro e Martin Scorsese

Martin Scorsese (1942, Flushing, New York) rientra fra gli esponenti della New Hollywood, quell’ondata di rinnovamento che, a partire dalla metà degli anni ’70, riscoprì l’essenzialità del cinema come messaggio e come concetto, non limitandosi semplicemente a dare una rinfrescata alle consuete tematiche o ai vari generi.
Questi ultimi divennero oggetto di una profonda revisione, così da adattarli a sottolineare un’inedita narrazione della nazione americana.
Ottimismo, perfezione, eroismo venivano infatti sostituiti da dubbio, voglia di fuga, disadattamento e, con il procedere degli anni Settanta, da angoscia, paura, senso di amara sconfitta. Dopo una breve esperienza in seminario, Scorsese frequentò la Scuola di Cinematografia della New York University, laureandosi in regia. Iniziò quindi a girare una serie di cortometraggi (come The Big Shave, 1967), dove iniziava già ad intravedersi il suo stile, che traeva ispirazione dai cineasti francesi della Nouvelle Vague ma anche dal Neorealismo italiano e da registi indipendenti quali John Cassavetes.
Nel 1969 diresse il suo primo lungometraggio Who’s That Knocking at My Door (Chi sta bussando alla mia porta?), cui fece seguito, una volta che Scorsese entrò nella factory di Roger Corman, Boxcar Bertha (America 1929- Sterminateli senza pietà, 1972). L’attenzione di pubblico e critica arrivò però con i successivi Mean Streets, 1973, Alice Doesn’t Live Here Anymore (Alice non abita più qui, 1975) e, soprattutto, Taxi Driver, Palma d’Oro al 29mo Festival di Cannes nel 1976: da qui in poi, con qualche discontinuità, la carriera di Scorsese proseguirà fino ai giorni nostri.

2
New York. Il 26enne Travis Bickle (Robert De Niro), ex marine reduce dal Vietnam, soffre d’insonnia. Cerca e trova lavoro come taxista notturno. E’ un uomo solo, non ha amici, a parte i colleghi che incontra al solito bar, le sue giornate scorrono indistintamente una dietro l’altra. Quando non è alla guida del taxi frequenta cinema a luci rosse o sta chiuso nel suo appartamento, intento a scrivere un diario quotidiano, pensieri in libera uscita ad invocare un nuovo biblico diluvio che ripulisca le strade della città da tutta la melma che vi brulica. Nel marciume intravede colei che potrebbe essere l’angelo della salvezza, Betsy (Cybill Shepherd), che lavora nella campagna elettorale per il candidato alla presidenza Palantine.
Le fa un po’ di corte, riesce ad intrigarla con le sue molteplici contraddizioni e l’invita al cinema, portandola a vedere un film hard.
La donna, disgustata, va via. Travis prende atto della propria condizione esistenziale, la solitudine come unica ragione di vita e il sentirsi chiamato a mettere in atto una guerra personale al mondo, missione volta a portare ordine e giustizia, almeno dal suo punto di vista. Compra facilmente una serie di pistole, si allena duramente e dà il via alla carriera di giustiziere uccidendo un rapinatore in un emporio. Fallito l’attentato al senatore Palantine, la sua azione di pulizia si concreta nel salvataggio della prostituta 12enne Iris (Jodie Foster), uccidendo il magnaccia Sport (Harvey Keitel), un mezzano e un cliente, restando ferito e tentando infine il suicidio. Acclamato come un eroe dai media e dai genitori di Iris, ora rientrata a casa, una volta guarito Travis torna a guidare il suo taxi, apparentemente tranquillo …

De Niro

De Niro

Taxi Driver a quaranta anni dalla sua uscita (8 febbraio 1976, negli Stati Uniti) si palesa come un film estremamente attuale e dal forte impatto emotivo e visivo.
L’ottima sceneggiatura di Paul Schrader, ruvida e sanguigna, lo stile neoespressionista ed iperrealista di Scorsese danno vita ad un moderno noir d’ambientazione urbana, come evidenziato, ancora prima della voce fuori campo del protagonista, dall’apertura iniziale sui titoli di testa, con l’avanzare al rallenty dello yellow cab guidato da Travis fra nuvole di fumo, sottolineato dall’incedere musicale di Bernard Herrmann. Quest’ultimo, che morì durante le riprese (la pellicola è infatti a lui dedicata), assembla in successione i due temi sonori che saranno propri della narrazione, uno morbido e levigato, l’altro graffiante ed aggressivo, creando un particolare effetto straniante. Indimenticabile la magistrale interpretazione di De Niro, fluida e naturale nel rendere materialmente evidente un forte senso di disagio psicologico, senza dimenticare l’eterea Cybill Shepherd, espressione dei “buoni valori borghesi” ed una giovane Jodie Foster, ingenua “Cappuccetto Rosso” ormai persa nel fitto bosco della Grande Mela e soggiogata in tutto e per tutto dal “Lupo cattivo”, il laido pappone interpretato con crudo realismo da Keitel.
Dai titoli di testa e sino al finale siamo obbligati ad entrare nella mente del protagonista e vedere ogni cosa come la vede lui, senza mediazione alcuna.

De Niro e Cybill Shepherd

De Niro e Cybill Shepherd

Spesso infatti la macchina da presa offre al riguardo inquadrature insolite, quasi estreme, come il riprendere inizialmente la camminata di Travis nel parcheggio dei taxi per poi lasciarla fuori campo, prediligendo una panoramica sulle auto parcheggiate, o la sequenza in cui Travis chiama Betsy da un telefono pubblico per chiederle scusa del suo comportamento, idonea a farsi simbolo, nello staccarsi dalla figura dell’uomo abbracciando con una carrellata laterale un vicino corridoio del tutto vuoto ed isolato, della definitiva resa ad una condizione esistenziale dove la solitudine appare come l’auto inflizione di una pena ricercata e voluta.
Splendida, per quanto agghiacciante, la ripresa ruotante dall’alto nel finale, che segue la scia di sangue conseguente alla “missione di guerra” dell’ex marine e dall’interno dell’edificio ci riporta fuori, a “riveder le luci” della città di New York. La metropoli, fotografata da Mark Chapman, appare lontana da qualsiasi visione romantica e o turistica: nient’altro che il solito agglomerato urbano, caotico e frenetico, brulicante di varia umanità e, per contrasto, proprio per questo tendente a far risaltare la solitudine dell’essere umano.
Travis è, come gli dice Betsy citando un verso di una canzone di Kristofferson, “Un po’ realtà, un po’ finzione, una vera contraddizione”, schizofrenica ripartizione tra valori puritani e spinte ora reazionarie, ora anarchiche.

Jodie Foster e De Niro

Jodie Foster e De Niro

Simbolico al proposito anche il taglio di capelli mohawk, proprio tanto di tale tribù di indiani che di alcuni corpi speciali dei Marines, in vista delle spedizioni punitive.
Travis è un angelo sterminatore che autoalimenta il suo disadattamento, visto che la sua, più che una ricerca d’integrazione nel contesto sociale, si palesa come una continua battaglia volta a far sì che siano gli altri ad adeguarsi alla sua condizione. L’eroe individualista della frontiera diviene ora antieroe, la cui amara vittoria finale è conferita dall’approvazione sociale di quanto messo in essere da un uomo la cui alienazione e la costante paranoia costituiscono una miccia sul punto di essere sempre accesa, capace di un unico confronto possibile, quello con sé stesso e la propria devianza, figurativamente reso dalla famosa scena dello specchio (Travis solo nell’ appartamento, pistola in pugno, rivolto alla sua immagine) e ripreso nel finale.
Qui una particolare correlazione fra l’insorgere di un deciso contrappunto sonoro ed un rapido scatto dell’inquadratura in contemporanea con l’innalzarsi dello sguardo di Travis verso il retrovisore ritraggono emblematicamente una condizione borderline tra normalità e follia, in equilibrio precario su quella fune tesa lungo la voragine dove il sonno della società genera mostri.

Ascolta il podcast su Giovanni Certomà.it


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :