Taxi Teheran
di Jafar Panahi
Iran, 2015
genere, drammatico
durata, 85'
Il saliscendi di personaggi grotteschi, ma ognuno a modo
proprio funzionale nello svelare la finzione da subito dichiarata, incede con
un’inerzia che rende difficoltosa la digestione del nuovo film di Panahi.
“Taxi Teheran”, premiato con l’Orso d’oro all’ultima edizione
della Berlinale, è nelle intenzioni una denuncia nei confronti del sistema di
censura che è di fatto la morte culturale di un luogo come l’Iran, censura di cui
una delle maggiori vittime è lo stesso Panahi. Dicevamo nelle intenzioni perché a conti fatti il film è un mockumentary girato in maniera piuttosto
goffa - l’unica nota di merito è il posizionamento della m.d.p. sempre all’interno
dell’abitacolo, a simboleggiare la soffocante condizione di prigionia personale
ed artistica vissuta dal regista - che dopo lo stentato avvio post-neorealista
inizia ad entrare in una tempesta di meta-cinema maldestro ed a tirare in ballo
argomenti cui non s’accenna mai un tentativo di approfondimento. Tutti
elementi, questi, per un paradosso che non ci riesce – o ci rifiutiamo – di capire,
che hanno fatto urlare al capolavoro nei salotti buoni della
sinistra (nei quali la critica cinematografica italiana
in primis sguazza da decenni) e che non a caso hanno portato alla
premiazione
nel contesto di un festival come quello di Berlino, dove la tematica
sociale viene spesso elogiata a scapito del cinema, elemento scomodo,
quindi da abbandonare in uno scantinato buio e da dimenticare.
Al netto dell’indigestione cui si faceva cenno sopra -
evidentemente provocata non da una difficile decodifica, ma al contrario da un’iper-semplificazione
che rende tutto inconsistente - “Taxi Teheran” ha avuto il merito di mostrare
come pubblico, critica (e registi) siano stati diseducati al cinema; e se è
vero che in Paesi come l’Italia il problema è dalla parte opposta - si vedano i
fondi pubblici dilapidati per produrre oscenità con un’inquietante solerzia - è
vero anche che non basta una storia esterna al film, per quanto dolorosa, per
fare il film.
La rosa rossa posata sul parabrezza rappresenta il paradosso
più insormontabile: una dichiarazione d’amore verso il cinema fatta tramite un
prodotto che rappresenta quanto ci sia di più distante dal cinema stesso