Tears to Tiara II: Heir of the Overlord – Sviolinate fantasy nell’antica Roma

Da Videogiochi @ZGiochi
di Jacopo "ED64" Retrosi

La saga di Tears to Tiara nasce nel 2005 per mano di Leaf, software house nipponica rinomata per le sue produzioni rivolte ad un pubblico rigorosamente adulto, e Tears to Tiara non era certo da meno. Concepito originariamente come gioco di ruolo tattico in tempo reale con una spiccata enfasi sul comparto narrativo, alla pari con una visual novel a tutti gli effetti, il titolo venne successivamente spogliato del contenuto hentai e convertito dal mercato PC a quello PS3 e PSP, transizione che lo privò tra l’altro del suo caratteristico gameplay, a sua volta ridefinito per assumere i canoni di un classico SRPG, più consono alle nuove piattaforme di riferimento. Ovviamente anche dopo la radicale censura nessuno si è prodigato di pubblicare il brand in Europa, ma la sorte non sembra essersi ripetuta con il suo seguito, Tears to Tiara II: Heir of the Overlord, sviluppato dalla sussidiaria di Leaf, Aquaplus (che qualcuno ricorderà per lo spassoso AquaPazza), in esclusiva PS3. Da qualche tempo nei negozi nostrani, questo secondo capitolo non presenta forti legami con l’originale, salvo alcuni flebili riferimenti comunque poco influenti sulla comprensione della storyline, fattore che ci ha permesso di approcciarlo senza il timore di perdere qualcosa per strada, e dopo una sfiancante settimana abbiamo calato il sipario su di una lunga epopea fantasy abbastanza singolare. Ecco il verdetto finale.

TU QUOQUE, ROMA?

Sulla scia del suo predecessore, Tears to Tiara II: Heir of the Overlord focalizza gran parte delle sue risorse sulla narrazione, tanto che potremo definire la parte strettamente ludica secondaria, se non accessoria. Nei tredici capitoli lungo cui si snoda la campagna, piuttosto longeva anche per gli standard del genere (parliamo di 40-50 ore, di più se affrontata alle difficoltà maggiori), gran parte del tempo con il pad tra le mani lo spenderemo infatti a districarci tra i fiumi di testi a schermo che approfondiscono l’evolversi della vicenda e le relazioni tra personaggi. Le 45 battaglie che scandiscono la storia sono relativamente brevi e si risolvono solitamente in una decina di turni, una manciata di minuti praticamente, al termine dei quali conviene mettersi comodi, dato che prima di poter scendere nuovamente in campo passerà più di un giro di orologio, alle volte persino ore. L’impostazione spiccatamente dialogica tuttavia non racchiude un intreccio particolarmente complesso, tanto meno svariate strade da sondare, anzi la progressione si rivela estremamente lineare e non concede al giocatore alcuna occasione per influenzare il corso degli eventi, né troviamo materiale aggiuntivo come retroscena o side story; insomma, un romanzo virtuale in tutto e per tutto, una soluzione alquanto inusuale (e coraggiosa) in un mercato che chiede a gran voce dinamismo e interattività, almeno qui in Occidente. Come già accennato in apertura, Heir of the Overlord non si ricollega direttamente al capostipite del brand, essendo ambientato in tutt’altra era rispetto a Tears to Tiara, sebbene sempre all’interno del medesimo universo, di cui è ravvisabile qualche piccolo lascito qua e là. La trama prende atto in una curiosa rivisitazione a sfondo fantasy del Mediterraneo in epoca romana, ripercorrendo alcuni eventi chiave di questa civiltà, come il passaggio dalla repubblica all’impero, la diffusione del cristianesimo, la conquista e la rivolta dei territori tramutati in colonie, le guerre civili, le invasioni puniche, chiaramente reinterpretate dagli sviluppatori nipponici, che tra l’altro non si sono fatti troppi scrupoli ad utilizzare terminologie, riferimenti e addirittura citazioni proprie del periodo, compresi i nomi di alcune divinità e personalità di spicco, per quanto spesso a sproposito. Il risultato? Un frullatone epico-fantasy dal carattere filo-jappo ma dal sapore classicheggiante, canonico sia a livello di contenuti che strutturale (in particolar modo abbiamo notato parecchie analogie con la saga di Fire Emblem), ma esilarante se inquadrato in un’ottica storico-culturale, specie dalle nostre parti, dove sicuramente anche i muri ne sanno più di quelli di Aquaplus in merito; il semplice fatto però di poter invadere una Roma presidiata dalla morte in persona alla testa di un esercito composto da elefanti, mech, draghi e grifoni è un bonus non indifferente.

È un peccato dunque constatare come nel complesso l’avventura non riesca a vivere all’altezza delle aspettative. Intendiamoci, in quanto novel alla radice è comprensibile che il ritmo sia piuttosto lento, soprattutto nelle battute iniziali, e che all’azione si alternino tempi morti atti a “spezzare l’atmosfera”, tra siparietti comici, allegre scenette di vita quotidiana e fanservice gratuito, seguendo alla lettera i più puri dettami dell’intrattenimento popolare giapponese (non molto azzeccato in questo caso), eppure anche condensando l’essenziale il comparto narrativo di Tears to Tiara II non convince appieno: i dialoghi appaiono fin troppo dilatati, appesantiti da un’impostazione quasi teatrale che diventa ben presto tediosa, si cerca in maniera troppo evidente il dramma facile, a costo di ribaltare senza alcuna cognizione ogni preconcetto finora instaurato, i colpi di scena sono citofonati, privi d’impatto, il cast fatica a imporsi, risultando in gran parte sterile per via delle stringate e discutibili introspezioni dedicate, poco più che stereotipizzazioni, nonostante la mole di screenplay… In sunto, pur riuscendo a farsi una buona idea e a tenere traccia dell’immane quantità di cose che succedono nel corso della storia, lo spettatore tenderà inevitabilmente a stancarsi (o a divertirsi) di personaggi che continuano a menare il can per l’aia, a voltare pagina sul proprio atteggiamento e i loro rapporti come una bandiera al vento, e a seguire metodiche poco credibili in funzione del “pathos”, specie se ripetute con insistenza. E dire che il potenziale non manca, in sporadiche occasioni la direzione è veramente ottima, la tensione palpabile e il coinvolgimento reale, ma viene tutto scaricato nell’inquadratura successiva come se niente fosse, neanche un battibecco tra amici durante un pic-nic…

MA CI STANNO ALMENO PROVANDO!?

Analizzato sul profilo ludico, Tears to Tiara II: Heir of the Overlord si presenta come un RPG tattico abbastanza sui generis, parco dal proporre meccaniche innovative, ma sufficientemente solido e immediato da lasciarsi apprezzare sia dai neofiti che dai veterani. Il battle system non prevede una suddivisione classi, equipaggiamento e skill sono caratteristiche strettamente legate al personaggio, tuttavia a voler restringere il cerchio per le prime si tende a distinguere tra unità da mischia, in grado di indossare elmi e corazze pesanti, e a lungo raggio, arcieri o maghi che siano, più propensi a viaggiare leggeri, mentre per le seconde il campionario si può ricondurre agli archetipi standard su cui verte grossomodo ogni esponente del genere, quindi abilità da attaccante, magie offensive, curative, di buff e debuff, e infine supporto. Nel caso del titolo Aquaplus però l’arma impugnata influenza solo parzialmente il percorso evolutivo di un personaggio, che svilupperà tratti misti in base alla sua personalità: Hamil e Laelius ad esempio adoperano entrambi la spada, ma mentre uno è specializzato in incantesimi del vento l’altro è in grado di ridurre le statistiche degli avversari, Tarte accompagna il suo spadone con magie minori, Saul invece compensa questa carenza con un vasto assortimento di tecniche letali nel confronto diretto, l’arco di Daphnis infligge status alterati dalla distanza, Dion no, ma grazie al suo strumento musicale, in quanto aspirante bardo, può assegnare bonus o malus su larga scala, e così via; con la pratica ci si accorge che le abilità in fondo non sono tantissime, tuttavia il modo in cui sono smistate consentono ad ogni personaggio di avere una propria nicchia sul campo di battaglia. Ognuno dispone quindi di una mossa finale devastante e signature esclusive, barre di carica per boost monouso, attacchi di coppia con le unità a loro più affini, skill di comando quando impostati come leader, ed è possibile assegnargli ulteriori proprietà, acquisite salendo di livello o dai manuali recuperati. Heir of the Overlord vanta inoltre un circoscritto sistema di crafting, per potenziare l’equip acquistato con i materiali ottenuti dai nemici abbattuti, una gestione dinamica degli attributi favorevoli sulla mappa di gioco, che permette ad ogni combattente prima o poi di ricevere i suoi benefici (contrariamente alla media del genere, trattandosi di un fattore solitamente impostato a tavolino ad inizio scontro), e un’interessante implementazione dello spawn point alleato: in Tears to Tiara II non troviamo l’insidiosa meccanica di permadeath, ma al tempo stesso i compagni caduti non potranno essere rianimati fino al termine dello stage; qui entra in gioco la Quadriga, trainata da Noa, la nostra elefantessa di fiducia, che fornisce un comodo ponte tra le unità schierate e quelle ancora in panchina. Conteggiata come un membro attivo dell’esercito, pur non potendo muovere autonomamente né rispondere agli attacchi, la sua funzione è consentire alle truppe indebolite, o divenute inutili ai fini della vittoria, di rientrare al sicuro nei ranghi, dove curarsi e attendere il momento propizio per tornare alla ribalta, e al contempo rimpiazzare le vittime con soldati freschi, a patto di non sforare il limite. Da un punto di vista tattico offre numerose soluzioni per adattare la propria strategia a improvvisi cambiamenti dl fronte, salvare in calcio d’angolo e contrattaccare, tuttavia qualora la Quadriga venisse distrutta non sarà più possibile fare affidamento su nulla di tutto ciò, pertanto è fondamentale tenerla al sicuro, Noa compresa.

Così descritto il gameplay sembra davvero promettente, non fosse per un dettaglio che abbiamo finora trascurato: l’IA è pessima. Facile, Normale, Difficile, non importa quale livello di difficoltà scegliate, non importa contro cosa vi stiate battendo, lo schieramento opposto seguirà sempre un solo modus operandi: attendere inerte finché non vi avrà a portata di tiro, salvo una manciata di avanguardie a inizio round o qualche boss costretto a schiodarsi dal suo loculo per esigenze di missione. Questa scelta di design poco felice da parte dei programmatori nega al giocatore buona parte delle gratificazioni derivanti da un posizionamento ragionato, in quanto non serve approntare delle difese in vista dell’imminente assalto, né dare priorità alla protezione di eventuali feriti, o scegliere con cura il prossimo bersaglio o la skill più efficiente da utilizzare, e questo perché una volta respinta la prima ondata si ha tutto il tempo di rimettersi in sesto e grindare, dato che chiunque in possesso di magie curative può bellamente lanciarsele addosso e guadagnare una vagonata di esperienza, indi avanzare con calma e travolgere gradualmente i restanti sopravvissuti; non esageriamo confidandovi che la stragrande maggioranza delle battaglie le abbiamo trascorse avanzando a vuoto verso la meta, spammando Heal turno dopo turno, boss finale incluso! Il colpo di grazia lo assesta l’inopportuno sistema di rewind, che ci assicura assoluta immortalità e infallibilità; facile, troppo facile, e anche ingenuo ci sovviene.

Sul versante tecnico è ravvisabile un netto stacco tra le occasionali CG e gli artwork, splendidi, e il motore grafico in-game, povero, semplicistico e incapace di rappresentare concretamente quel che accade a schermo, specie trattandosi di uno scenario di guerra in continuo mutamento. Non è un dramma considerato il suo genere di appartenenza (sebbene sembra di essere tornati indietro di almeno una decina di anni), tuttavia era lecito aspettarsi un maggior impegno da parte del team di sviluppo (budget risicato?); un paio di filmati sulla falsariga dell’opening avrebbero aiutato non poco. Buono l’accompagnamento audio, con una discreta selezione di brani e jingle ora epicheggianti, ora spensierate, ora composte, ora malinconiche, che ben si sposano con l’atmosfera cangiante, suggerendo diversi scorci suggestivi, e il doppiaggio in lingua originale (niente localizzazione stavolta), convincente, tranne il povero VA di Hamil, obbligato da copione a urlare come un ossesso e a schiamazzare malamente ogni due per tre in balia di un personaggio “leggermente” sopra le righe (o fuori di testa). Non sarà riuscito a suscitare in noi altro se non grasse risate con i suoi chiassosi turpiloqui a cavallo tra una chuunibyo allo stato terminale e una magniloquenza degna del miglior oratore latino (o di una puntata-tipo di Jojo), ma diamine che polmoni! I complimenti sono d’obbligo…


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