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TECNICHE DI RESURREZIONE, di Gianfranco Manfredi

Creato il 14 ottobre 2010 da Letteratitudine

Sul precedente libro di Gianfranco Manfredi – “Ho freddo” – sulle pagine di Tuttolibri de La Stampa, Sergio Pent ha scritto: “Un romanzo che avvince e instilla dubbi sul fascino dei miti popolari, sulle suggestioni esercitate dai potenti, sui tentativi della medicina di risolvere mali che nascono dal profondo di psicologie ataviche, radicate nel dolore e nella paura. Davvero, se Stephen King avesse occasione di leggerlo, potrebbe sicuramente esclamare «ma perché non l’ho scritto io?»”.

Per Ernesto Ferrero, invece, “con verve divertita e provocatoria, Manfredi mescola temi, ambienti, linguaggi, reinventa documenti e carteggi, incrocia personaggi autentici con le fantasie più arrischiate del romanzo gotico e della horror story, miti industriali e dimore di fantasmi, culti arcaici […]e sperimentazioni […], effetti da Grand Guignol e fenomeni extrasensoriali”.

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Gianfranco Manfredi è tornato di recente in libreria con un nuovo romanzo, anche questo pubblicato da Gargoyle, intitolato “Tecniche di resurrezione” (dove riprende le vicissitudini dei tre personaggi che animavano il precedente “Ho freddo”, pur mantenendo una struttura narrativa del tutto autonoma).
I riscontri positivi non mancano nemmeno per questo libro. Ranieri Polese, sulle pagine culturali de Il Corriere della sera del 26 settembre 2010 scrive: “Manfredi alterna la riproposta dei suoi titoli di ieri con una nuova produzione di «romanzi filosofici» in cui personaggi e storie d’invenzione si mescolano a fatti e figure storiche e rigorosamente documentate”.

Nell’introduzione al libro, Carlo Bordoni scrive: “Tecniche di resurrezione è un vero capolavoro settecentesco ricreato al giorno d’oggi: del romanzo gotico riprende il tema e la morbosa attenzione per la vita dopo la morte; del romanzo filosofico mette in evidenza i problemi morali, la vivace discussione intellettuale e le contraddizioni del tempo; del romanzo storico ha l’attenzione puntuale per gli eventi narrati e la ricostruzione dei personaggi reali; del romanzo fantastico ha il fascino dell’orrido e il richiamo agli elementi insondabili che sono alla base del mistero della vita”.

I temi affrontati e gli spunti di riflessione offerti da Tecniche di resurrezione sono molteplici, tra cui quello della ossessiva attenzione per la vita dopo la morte e quello dell’ansia di progresso della scienza che, talvolta, trascura remore morali e rispetto per gli uomini (nel romanzo si stigmatizza l’uso spropositato da parte di medici dei cadaveri della povera gente fatta morire in anticipo negli ospedali per poterne studiare il corpo).
Troverete maggiori informazioni nel corso del dibattito, a cui parteciperà anche l’autore (che, oltre a essere “figura carismatica” della letteratura gotica italiana, è animatore instancabile del dibattito sulla letteratura dei vampiri e di altri orrori proposto su questo blog).

Discuteremo del romanzo e dei temi da esso affrontati. Per favorire la discussione, pongo le seguenti domande.

- Avete mai letto il romanzo “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley? Se sì, cosa ne pensate? Che sensazioni ha suscitato in voi?

- Se grazie a una sorta di sperimentazione tecnologica vi venisse offerta la possibilità di “vivere per sempre” (a voi e solo a voi)… accettereste?  Se sì, a quali condizioni?
A prescindere da qualunque considerazione di natura religiosa… sarebbe “morale” accettare?

- Ci sono limiti oltre i quali la scienza medica non dovrebbe spingersi?

Di seguito: il booktrailer del libro, l’articolo di Luciano Comida (che mi darà una mano a animare e a moderare la discussione) e l’introduzione al volume firmata da Carlo Bordoni.

Massimo Maugeri

P.s. Ne approfitto per segnalare su La poesia e lo spirito l’intervista a Claudio Vergnani su “Il 36° giusto” (Gargoyle, 2010)

TECNICHE DI RESURREZIONE di Gianfranco Manfredi
Gargoyle, 2010 - euro 18 - pagg. 489

recensione di Luciano Comida

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Stanotte, alle due passate, ho finito “Tecniche di resurrezione”. Non c’è niente da fare: certe persone non impareranno mai a essere furbi. E se hanno sessantadue anni, ogni speranza è perduta. Prendiamo Gianfranco Manfredi (nella foto), nato a Senigallia nel 1948. Negli anni Settanta andava di moda la canzone politica seriosa e lugubre da incrociar le dita e toccar ferro? E lui fece dischi beffardi che, oltre a raccontare con ironia e passione un’epoca, restano di sorprendente attualità. Ecco per esempio:
Ma non è una malattia“  o la splendida e censuratissima “Ma chi ha detto che non c’è“, uno dei gioielli segreti della musica italiana. Negli anni Ottanta l’horror era considerato roba da mentecatti? E lui nel 1983 pubblicò da Feltrinelli “Magia rossa” (ripubblicato da Gargoyle), un romanzo che mescolava con fantasia colta e stregonesca la lotta di classe e i brividi del gotico. Negli anni Novanta il western era un genere morto e sepolto? E lui nel 1997 si mise a scrivere un fumetto western fantastico, storico e di sinistra come “Magico Vento”, arrivato a 130 episodi e 13.000 pagine. Qualche anno fa molti furbetti guadagnavano un sacco di soldi con i corsi di scrittura creativa? E lui mise on line un ottimo manuale gratuito di sceneggiatura e scrittura. Adesso vanno di moda i vampiri e basta buttar giù una storia draculesca per vedersela comprata da migliaia di adolescenti? E lui, che sui vampiri ha scritto eccellenti libri (primo fra tutti “Ho freddo”), esce con “Tecniche di resurrezione” dove dei vampiri non c’è manco l’ombra.

Ora qualcuno vi dirà che “Tecniche” è un romanzo troppo lungo, qualcuno che è troppo corto, un Terzo che è troppo lento, un altro che ci sono troppi personaggi, Tizio che a volte fa ridere e a volte è orrido, Caio che mescola troppi generi (giallo, macabro, storico, filosofico, epistolare, satirico, teologico, sociale…), Uno che non si capisce dove va a parare, Secondo che a tratti è inverosimile, Sempronio che è troppo realistico, qualcun altro che è troppo fantastico, XY che è troppo collegato al precedente “Ho freddo”, Calpurnia che è troppo poco legato al precedente “Ho freddo”, tutti vi diranno che è un romanzo strano ma nessuno vi dirà che è un “romanzo fatto con lo stampino dei libri tutti uguali”…La trama? A grandissime linee è questa: nel 1803, attorno a una suggestiva e misteriosa ipotesi medico-scientifica le cui radici affondano nel remoto passato dell’umanità, si addensano molti interessi. Di più non vi dirò perché sarebbe criminale svelare troppo e chi legge non sa mai dove il libro lo condurrà, così non può adagiarsi in una di quelle letture sonnacchiose e prevedibili. Ogni tanto (soprattutto quando Manfredi ci conduce nei meandri nella Londra miserabile e inquinata, formicolante di poveri e malati, sfruttati ed emarginati, scuole pubbliche degradate e assistenza sanitaria precaria) ci diciamo: “si sta forse parlando di noi?” E il brivido che ci corre lungo la schiena non è dovuto solo ai sapienti colpi di scena ma all’orrida sensazione che, forse, il nostro futuro potrebbe somigliare al nostro passato. Ancora qualche accenno alla piccola folla di personaggi, come sempre nelle opere di Manfredi riuscitissimi, dai principali ai comprimari. Ecco allora i due gemelli Valcour e Aline de Valmont, aristocratici libertini francesi (già protagonisti di “Ho freddo”), medico gay lui ed esperta di chimica lei col cuore infranto per l’amore perduto nel precedente romanzo. Poi infelici nobildonne inglesi e camerieri saccenti, chirurgi ambiziosi e militari arroganti, attori di teatro e Napoleone in persona, politici e re Giorgio II, il filosofo Jeremy Bentham e mercanti ghiottoni, farabutti e pastori protestanti, in un ricco quadro dipinto con colori che vanno dal comico al tragico, dal thrilling al grottesco. Perché l’ambizione di Manfredi è molto semplice e molto grande: prendere il genere “horror”, depurarlo della sua componente più esibizionistica e fecondarlo con ogni altro genere possibile. “Vi piace lo stile gotico?” chiede a pagina 471 un personaggio. Gli rispondono (ma forse è proprio Manfredi): “È un grido lanciato al cielo, dagli oscuri labirinti e dalle infinite storture della vita terrena”

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Prefazione a Tecniche di resurrezione

PRIMA DI FRANKENSTEIN
di Carlo Bordoni

TECNICHE DI RESURREZIONE, di Gianfranco Manfredi
Quando si pensa a Frankenstein, si pensa al primo romanzo in cui si tratta della vita dopo la morte o, meglio, della resurrezione post-mortem per effetto di una tecnologia umana. Una sorta di apoteosi dell’uomo che, grazie alla scienza, è in grado di ridare la vita a un corpo inerte; l’uomo che riesce a realizzare il suo sogno più profondo, quello di appropriarsi del potere divino di dare la vita. Ci avevano provato gli antichi con la magia, la cabala e la stregoneria, non riuscendo ad andare oltre il Golem ebraico.
È vero che Frankenstein è un GUB (acronimo di Great Unread Book), cioè uno di quei libri che sono più citati che letti, più conosciuti per le riduzioni cinematografiche, televisive o fumettistiche che per la frequentazione testuale, ma è pur sempre il cult per antonomasia del genere. Anche se il nome dello scienziato ha “fagocitato” quello della sua creatura ed è divenuto così popolare da oscurare persino quello della sua autrice, Mary Wollstonecraft, sposa del poeta romantico Percy Bysshe Shelley, che nella fatidica notte del 16 giugno 1816, nella villa Diodati sul lago di Ginevra, scommise con i suoi compagni di “grand tour” (lo stesso Shelley, lord Byron e il dottor Polidori) di scrivere la più terrificante storia sui morti che ritornano.
Frankenstein è divenuto il simbolo moderno della resurrezione, delle opportunità di una tecnologia sempre più complessa di compiere miracoli; l’antesignano di successive e fantasmagoriche soluzioni “scientifiche” che, partendo dalla fisica elementare, di volta in volta si sono appellate all’ultimo ritrovato capace di eccitare più la fantasia che i corpi irrigiditi dal rigor mortis, dal fulmine all’energia atomica, fino al computer.
Frankenstein si guadagna così il titolo di “moderno Prometeo”, come recita il sottotitolo del romanzo della Shelley; ma è solo quello, tra i tanti tentativi di quel periodo, ad essere entrato stabilmente nell’immaginario collettivo.
Eppure Frankenstein è solo la parte emergente di una vasta e sentita “cultura mortuaria” e di una speciale sensibilità per il soprannaturale e l’orrido, che segna la cultura europea (Italia compresa, visto che molti romanzi gotici sono ambientati nel nostro paese) e che, come accade ai fenomeni culturali di grande portata, finisce per spingere le sue propaggini anche nel secolo successivo.
Per comprendere lo straordinario successo della sensibilità gotica e l’attenzione, persino morbosa, per i temi della morte, coniugata in tutte le sue sfumature, è necessario risalire agli anni a cavallo tra il Seicento e il Settecento, proprio nel periodo in cui più forte si va affermando il principio di ragione e la Rivoluzione industriale sconvolge i rapporti sociali ed economici con l’introduzione della macchina. Ma è essenzialmente la sensibilità settecentesca, quella dell’Illuminismo, della messa in discussione dei dogmi, della prevalenza del dubbio, del ricorso alla ricerca sperimentale (dall’empirismo di John Locke in poi), a manifestare un’attenzione speciale per il mistero della vita e della morte, coniugandolo con l’intelligenza della macchina.
L’Europa era stata attraversata da una psicosi collettiva, conosciuta come la “peste del vampirismo”, che aveva portato a conseguenze letali sul piano dell’igiene e della salute pubblica.
Sull’onda emotiva del terrore suscitato dai revenants e dalla loro presunta intenzione di vendicarsi dei vivi, gli anni tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del XVIII, vedono diffondersi la pratica del disseppellimento di cadaveri sospettati di essere vampiri. Le salme sono oggetto di mutilazioni – più spesso il taglio della testa o l’impalamento del cuore – al fine di impedire loro di “tornare”. Così frequente e passibile di creare terribili epidemie che la pratica del disseppellimento dovette essere vietata da severe leggi, come quella di Maria Teresa d’Austria del 1755.
Ma il Settecento è anche il secolo dello sviluppo dell’anatomia e della fisiologia umana, la cui pratica richiede cadaveri da sezionare, per effettuare esperimenti o anche solo per tenere lezioni di anatomia. Il che comporta una richiesta che non può essere soddisfatta se non col ricorso al trafugamento delle salme dai cimiteri. Tanto è diffusa la pratica del disseppellimento da dare origine a una speciale categoria di “lavoratori” che vive ai margini della legalità, i resurrection men: l’ironia contenuta nel loro nome lascia trapelare lo sconcerto di fronte ai sepolcri vuoti. Sono profanatori professionali di tombe, che provvedono i rifornire i gabinetti anatomici e gli istituti scientifici della materia prima; questa volta non per l’irrazionale paura dei vampiri, ma per servire la scienza.
Di pari passo, l’introduzione dell’energia elettrica dà origine alla seconda Rivoluzione industriale: nasce qui e si afferma una nuova figura di scienziato, il demiurgo che riunisce in sé le caratteristiche dell’intellettuale e del mago, ammantandosi di un fascino misterioso che lo rende il prototipo dell’eroe moderno. Colui che può interporsi tra l’uomo e Dio, grazie all’appropriazione di un sapere straordinario, il potere di controllare la macchina.
Gli esperimenti di Giovanni Aldini, lo scienziato italiano che tenta di applicare il galvanismo alla medicina, si spingono a testare sui cadaveri gli effetti dell’elettricità, che provoca la reazione riflessa dei muscoli delle braccia e della gambe, lasciando intravedere la plausibilità di un ritorno alle funzioni vitali anche dopo la morte.
Aldini è al centro di una febbrile attività scientifica che vede nell’utilizzo dell’elettricità un mezzo straordinario per liberare la creatività umana. Si costruiscono macchine per l’elettroterapia (fino all’elettroshock nei pazienti afflitti da problemi mentali) e sofisticati strumenti che dovrebbero curare la vita oppure causare la morte: una morte orribile, come nel caso della sedia elettrica, inventata nel 1888 e subito adottata dagli Stati Uniti per le esecuzioni capitali.
La figura di Aldini non è di secondaria importanza: nel 1807 pubblica, proprio a Londra, uno studio sul galvanismo (An account of the late improvements in Galvanism), dove sostiene la possibilità di riportare in vita un cadavere mediante stimoli elettrici, guadagnandosi così il merito di aver ispirato Mary Shelley.
La tecnologia si dimostra già da questo momento il più potente strumento al servizio dell’uomo, l’unico a permettergli di espandere la sua sete di conoscenza oltre i limiti finora imposti dalla religione e dall’etica. Se si escludono certi “contes philosophiques” e, soprattutto, lo scandaloso L’homme machine (1747) di Julien Offray de La Mettrie, scritto in forma di saggio, non esistono dunque antecedenti letterari del Frankenstein.
A riempire questa lacuna provvede ora Gianfranco Manfredi con uno straordinario romanzo, che potrebbe benissimo essere stato scritto attorno alla fine del secolo dei lumi e rappresentare il necessario prodotto letterario della cultura del tempo, tanto è immedesimato, calato in quell’atmosfera, così ben costruito nel ritmo, nelle descrizioni, nei dialoghi, nella psicologia dei personaggi e nei riferimenti storici, da risultare l’anello mancante tra i due “estremi” gotici, il Castello d’Otranto di Horace Walpole (1764) e, appunto, il Frankenstein (1818), che del romanzo gotico inglese è, allo stesso tempo, l’apoteosi e il superamento.
Tecniche di resurrezione è un romanzo a più voci: in primo piano Valcour de Valmont e sua sorella Aline (trasparente riferimento all’opera del Marchese de Sade) e le loro avventurose vicissitudini tra America, Francia e Inghilterra. Sono gli stessi protagonisti del precedente romanzo di Manfredi, Ho freddo (2008), ambientato nel New England, dove alla fine del Settecento esplodono, come in Europa, casi di psicosi collettiva legati al vampirismo.
Il New England non era nuovo a eventi del genere, visto che un secolo prima, proprio a Salem nel Massachusetts, c’era stato il più grave caso di caccia alle streghe dell’epoca moderna.
I due romanzi di Manfredi sono uniti dalla comune matrice del post-mortem, ma mentre in Ho freddo è il vampirismo a prevalere e costituire la chiave interpretativa di un’irrazionale psicosi collettiva, in cui si nasconde una vena di misoginia, che investe la comunità di Rhode Island, in Tecniche di resurrezione è la ricerca sui cadaveri, per scoprire il segreto della vita, a fornire il destro alla vicenda.
Il sepolcro violato è comune a entrambi; questa volta sulla sfondo di una Londra oscura e minacciosa, in cui avvengono misteriosi delitti e si muovono ambigui personaggi, protetti dal potere politico.
Qui la figura grandguignolesca del dottor Ending, che pratica una personale forma di eutanasia e sembra precorrere le gesta del più noto Jack lo Squartatore, che terrorizzerà la Londra vittoriana, è la chiave per interpretare le spinte conoscitive verso la modernizzazione, che, come spesso succede, si muove per strade perverse e anomale, imponendo sacrifici umani.
Se Valcour, il protagonista di Tecniche di resurrezione, rappresenta il principio di razionalità e di positiva considerazione di fronte ai problemi etici che la scienza impone – di fatto permettendo al lettore medio di riconoscersi in lui – il dottor Ending è invece il lato oscuro della scienza, la minaccia tangibile di un progresso che, nell’ansia di raggiungere i suoi obiettivi, perde di vista i valori morali e il rispetto per l’umanità.
L’atmosfera che prevale è quella plumbea e immobile delle istituzioni chiuse, luoghi in cui si è assoggettati a norme speciali, limitative della libertà personale: ospedali, carceri, caserme e officine, in cui vige la regola ferrea di “sorvegliare e punire” (per citare Foucault), non tanto per mantenere l’ordine, quanto per stabilire un dominio. Non a caso, tra i personaggi storici di Tecniche di resurrezione c’è quel Jeremy Bentham, inventore del “Panopticon” (1791), raffinato sistema di sorveglianza psicologica, realizzato per le prigioni, ma applicabile anche alle fabbriche e ai luoghi di cura.
In una Londra chiusa e impenetrabile come la nebbia che l’avvolge, dove l’unico spazio pubblico è il teatro: luogo franco, dove tutto può dirsi ed essere rappresentato in forma metaforica. Il teatro dove va in scena la vita, cui corrisponde un altro teatro, quello anatomico, dove va in scena la morte. Su queste due forme di spettacolarità pubblica si giocano i destini dei personaggi di Manfredi.
Tecniche di resurrezione è un vero capolavoro settecentesco ricreato al giorno d’oggi: del romanzo gotico riprende il tema e la morbosa attenzione per la vita dopo la morte; del romanzo filosofico mette in evidenza i problemi morali, la vivace discussione intellettuale e le contraddizioni del tempo; del romanzo storico ha l’attenzione puntuale per gli eventi narrati e la ricostruzione dei personaggi reali (come Lord Grenville, Carpue, Josephine Bonaparte e lo stesso Napoleone); del romanzo fantastico ha il fascino dell’orrido e il richiamo agli elementi insondabili che sono alla base del mistero della vita.
Non tutto ciò che Manfredi racconta è vero, ma si potrebbe ugualmente dire che non tutto ciò che scrive è frutto della sua immaginazione. Questo senso di ambiguità, questa sospensione dell’incredulità tra la fantasia e la realtà, sono ciò che lo rendono più simili a un’opera letteraria del passato, a un vero e proprio documento storico ritrovato.
Dopo aver letto Tecniche di resurrezione, Frankenstein non sarà più lo stesso. Lo vedremo in una luce diversa. Questo è, in verità, l’effetto perverso di quello che Borges ha definito l’anacronismo deliberato: “che cosa succederebbe se l’Odissea fosse posteriore all’Eneide?”. Tecniche di resurrezione ci fornisce una prima inquietante risposta.

Copyright © 2010 by Carlo Bordoni


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