Questo posto è troppo grande per me sola, e poi è troppo isolato. Per carità, è comodo, con tutti i ritrovati più moderni, tipo che per alzare o abbassare le tapparelle basta premere un tasto, idem per regolare la luce. Coibentazione perfetta, climatizzazione regolabile al millesimo di grado, arredo minimale grazie a armadi e armadietti incassati, un posto per ogni cosa, ordine assoluto e niente impicci in giro. Filodiffusione e televisori in ogni locale; perfino una piccola palestra e un solarium. La vista poi è impagabile, panoramica a 360 gradi, e la zona è tranquillissima, un paradiso.
Però anche il panorama a lungo andare stucca, e fare cyclette da sola mi fa uscire pazza, e questa cosa che non posso neanche svagarmi spolverando perché degli efficientissimi aspiratori nascosti lo fanno al posto mio mi sta facendo sentire inutile.
Certo, con tutta questa tecnologia un guasto è sempre in agguato, e allora sono cazzi, perché hai voglia a trovare un elettricista da queste parti. Per fortuna ho studiato ingegneria elettronica, come voleva mio papà che era un umile meccanico ma bravissimo, e con schede e circuiti me la cavo abbastanza. Per esempio, quando la cyclette è impazzita o il termostato della dispensa è andato in corto.
Qua ce ne sono spesso, di piccoli guasti da riparare. Adesso per esempio tocca alla parabola: ultimamente fa qualche scherzo, gli schermi si riempiono di neve, l’audio impazzisce. Inutile, devo pensarci io.
Prendo la mia cassetta degli attrezzi superfornita, mi copro bene e esco, perché la centralina è sul tetto.
Svito, smanetto precisa e delicata, collego il tester, correggo di qualche mezzo grado, eseguo una seconda diagnosi, aspetto qualche istante… ed ecco, la lucetta verde si accende, bella brillante e sicura. Evvai Molly, mi dico, anche stavolta hai fatto tutto da sola. Sei la migliore, sei.
Peccato che al momento di rientrare la manopola non gira. Provo, riprovo, è sempre stato un movimento semplice, ma stavolta non vuole saperne. No, dai, vuoi vedere che si è incastrata una linguetta e sono chiusa fuori? E ora chi chiamo, che non ho vicini di casa e per di qua non passa mai anima viva?
Provo con la chiave W8.3, la più robusta del mio equipaggiamento, ma so già che per girarla ci vuole una forza che non ho. La forza di un uomo, ci vorrebbe. E infatti non si smuove di un pelo, i polsi mi fanno male e comincio a sudare.
Mi viene da piangere. Mi viene da arrabbiarmi. Mi viene da pensare che col cavolo che rinnovo il contratto alla scadenza, ma mancano ancora sei mesi, accidenti a me. Sei mesi, e dopo chiudo bottega, cambio vita, mi cerco una casetta su misura, vecchiotta, con un giardinetto, un gatto, delle belle tendine alle finestre, una collezione di caffettiere sulla mensola del camino. Mi immagino la mattina in accappatoio aprire la porta per raccogliere il giornale e il latte e salutare la mia vicina che fa altrettanto in vestaglia. Mi immagino uno steccato verde, un droghiere in fondo alla strada, una biblioteca a due isolati, un caffè dove trovarmi con le amiche, il mercatino dell’usato ogni prima domenica del mese, le riunioni del circolo dell’uncinetto il giovedì pomeriggio. Un letto con una trapunta patchwork, una radio in sordina mentre inforno biscotti per Natale, le campane la domenica mattina. Mi immagino una vita di provincia deliziosa e un po’ pettegola, tra parrucchiera e supermercato. Sei mesi, dannazione, sei mesi. E intanto io qua fuori comincio ad ansimare.
Toh, guarda guarda guarda… e chi se lo sarebbe mai aspettato?
Un veicolo passa, rallenta, si ferma.
Oddio, veicolo: più che altro un trabiccolo, un po’ come il triciclo del gelataio che passava d’estate al villaggio.
Il tipo alla guida si affaccia, intuisce che c’è un problema e mi chiede se c’è bisogno di una mano.
Oddio, chiede: non l’ho visto parlare, direi più che altro che gli ho letto nel pensiero.
“Anche due! – esclamo riconoscente.
“Allora meglio quattro – gli leggo nel pensiero, mentre ammicca simpaticamente.
Dà un’occhiata competente, annuisce, concorda con me che si tratta della linguetta e in men che non si dica riesce a ruotare la manopola bloccata solo le mani e senza sforzo apparente. La porta si apre liscia come l’olio, e con un fruscio rassicurante.
Lo invito a entrare, vorrei offrirgli qualcosa, ma lui si schermisce (“Come accettato, non si preoccupi“) e intanto si guarda intorno e scopre un groppo di fili che penzolano da un quadro elettrico, poi un pannello del riscaldamento che vibra, una guarnizione della doccia logora e altre due o tre magagnette che ho sempre rimandato di sistemare.
Le sistema lui, tutte quante una dopo l’altra, senza attrezzi, con la massima semplicità, fischiettando.
Non so come sdebitarmi, davvero – gli dico imbarazzata al momento del congedo.
“E di che? Se non ci si aiuta tra noi… – mi sorride e se ne va.
Oddio, sorride: la bocca non ce l’ha.
Ma ha due mani d’oro.
Oddio, d’oro: verdi.
E non due: quattro.
* * * * * *
Questo racconto contiene qualcosa di verde e qualcosa di inespresso, e pertanto partecipa all’eds della Donna Camèl insieme a:
- Opera numero 1 di Angela
- La sciarpa di Michele
- O’ nipote mascalzone di Hombre
- A proposito della Prinz verde di La Donna Camèl
- Fili spezzati di Lillina
- Consigli di Dario
- Onda verde di Calikanto
- Due distinti signori in completo elegante di Gabriele
- Cambiamenti cromatici di Pendolante
- L’ego di Dio de Il Pendolo
- Il primo viaggio insieme di Gordon Comstock