Magazine Diario personale
Ero convinta che in qualche modo fosse stabilito che abitassi in quella casa. Qualcuno aveva scorso con un dito una lista che aveva davanti, si trattava di un militare di qualche corpo che non riuscivo a distinguere, un graduato ben piantato sulle gambe, non troppo alto, che aveva detto tu, a te è stato assegnato questo posto, sei di stanza qua, stacci fino a nuovo ordine, e io mi ero staccata dalla fila, e il militare, senza nemmeno darmi un’occhiata o rivolgermi un saluto mentre andavo via, aveva proseguito con le assegnazioni. Perché poi ci tenevo che mi salutasse? Non avrei saputo dirlo. In ogni caso fino a nuovo ordine potevo stare tranquilla.Intanto una squadra di reclute si andava a piazzare nel seminterrato del palazzo. Ce n’era sempre una, di squadre. Facevano i turni per controllare la caldaia e l’ascensore. Erano giovani e ancora spaesati, e quel posto così protetto rendeva possibile un addestramento di intensità media, non eccessivamente stressante, preparatorio ai compiti che sarebbero stati loro assegnati in seguito, di gran lunga più impegnativi. Almeno, quella era la linea di quel comandante. Fuori, poi, ad ogni ora del giorno e della notte c’erano un paio di militari di guardia al palazzo. Il graduato restò in casa mia, da qualche parte. Lavorava prevalentemente seduto a una scrivania dal piano di vetro verde e due file di cassetti che facevano da sostegno, e si serviva di un grosso telefono nero di bachelite con il filo imporrito e i cavi rossi e bianchi che entravano nella cornetta scoperti, che squillava molto spesso, soprattutto di notte, facendomi girare nel sonno, se non svegliandomi, benchè lui avesse sempre la delicatezza, a una cert’ora, di abbassare il volume della suoneria facendo girare una rotellina sotto il telefono, nel basamento avvitato al corpo del telefono con quattro grosse viti a stella. Sentivo la sua voce bassa ma decisa formulare una dopo l’altra frasi che non riuscivo a decifrare, e che restavano come sospese nell’aria, di notte, nel corridoio della mia casa avvolto nel buio. Dalla porta socchiusa filtrava solo la luce fioca della sua lampada da tavolo, verde anch’essa, a campana. Io non ero del tutto insensibile a quel tono di voce, anche se mi sforzavo. Ma stando nel letto mi arrivava nella forma classica di una mano che mi scorresse lungo il corpo, che aveva nella realtà l’intenzione di conciliarmi il sonno, mentre io invece cominciavo a sudare e avevo voglia di rispondere subito e con trasporto a quel tocco. Lui ne era in parte contento, perché voleva dire che avevo in testa tutt’altro pensiero che cercare di carpire i suoi discorsi al telefono, ma non provava per me assolutamente nulla e mai gli era venuto in mente di fare sesso con me. Aveva altri modi di sfogare la sua sessualità e io non ero tra questi, neanche in virtù del semplice fatto che fossi una donna, come a volte avevo sperato che fosse. Lui aveva delle necessità ben precise, ricercava nel sesso una qualità particolare che non poteva dargli chiunque. Io allora mi vergognavo dei miei desideri, mi raggomitolavo sperando di seccare in fretta e riprendevo sonno, obbedendogli come un cane. Lui, che di giorno era spesso fuori stanza, e tutta la truppa, non si allontanavano dai paraggi, e per questo dovevo solo provare gratitudine. I soldati avevano comportamenti che mi apparivano imprevedibili ma non era affar mio comprenderne il senso. Un giorno li vedevo strisciare rasoterra in ricognizione. Un altro li vedevo perlustrare tutta la zona per lasciarsela tranquilla dietro le spalle. Avevano insomma un gran daffare. Non capivo il significato di quella presenza, che chiaramente risaliva agli anni in cui l’edificio era stato costruito. Era talmente forte, la connotazione storica del palazzo, che in nessun momento, neanche per un minuto, se ne poteva prescindere. Quella dei soldati era una presenza naturale, come di piante spontanee cresciute ai bordi dell’autostrada. I primi tempi avevo fatto fatica ad accettarla, poi mi ero abituata, soprattutto grazie al fascino del comandante, devo dire. Era grazie a loro che ero più disposta a comprendere certe cose importanti.Non volevo ammetterlo neanche a me stessa ma in realtà mi sentivo come chiusa dall’interno da qualcuno. Io non avevo fatto nulla, ma non ricevevo luce. Mi sentivo piegata in quattro, in sei, in otto come un origami, e da sola non ce la facevo a liberarmi. Cercavo di scostare appena con un dito i lembi per intravedere uno spiraglio ma niente, non c’erano versi. Rimanevo là, immobile, a forma di fenicottero, nella posizione nella quale le guardie rosse mettevano alla berlina quelli che osavano commentare il regime, in bella vista sopra un palco nel mezzo di una piazza, ripiegata come se avessi qualcosa da nascondere, un segreto. Invece non avevo un bel nulla, all’interno, nient’altro che pieghe e il rovescio a tinta unita della carta.Lui di giorno faceva il galante, come se fossi io la ritrosa; mi si inchinava davanti scuotendo il bel ciuffo pettinato con cura e sospirava debolmente come se fosse obbligato a star lontano da me per non perdersi, facendomi dunque una corte discreta; un trattamento che si addice a una signora. In realtà la faccenda stava in altri termini, lo capivo bene: io lo desideravo ardentemente ma lui di me se ne sbatteva. Ero una persona tiepida, precisamente di colore beige, per lui, un giorno mi aveva detto così, lei è di un beige delicato, come un cappotto caldo di cammello indossato in una sera decembrina, mentre sulla città nevica a fiocchi leggeri e tutto si copre di un bianco manto a poco a poco, e io avevo sorriso malamente, specialmente al passaggio del cammello, e avevo capito che i suoi desideri sessuali andavano nella direzione di un paio di calze rotte verde bandiera, sostenute da una giarrettiera sudicia, e in una bocca che sapeva di fumo e di rossetto scadente. Era quello il suo sogno più dolce, quello che lo faceva tremare e a cui pensava masturbandosi sotto la scrivania o nel mio bagno quando il lavoro gli impediva di andarsi a cercare una persona così o di incontrarne una in particolare, di cui era innamorato. Propendevo per la seconda ipotesi, scartando al solito quella più scontata. Del resto era quella che giustificava certe telefonate febbrili che facevano vibrare la casa con un’intensità diversa da quelle di lavoro, lo sentivo. Ascoltavo triste e infoiata gemiti imploranti provenire dal basso della stanza, e lo immaginavo seduto per terra contro il muro, sotto la scrivania, aggrappato alle gambe della sedia, la cravatta slacciata, chiedere perdono per questo e per quello, anzi misericordia, compassione almeno, e strappare una promessa sul finale, la sola a consentirgli di ritrovare pace.Maria Rita Battaglia
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