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Tema: Do ut Es

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Tema: Do ut Es   - Dimmi che non stai avendo un altro dei tuoi attacchi …

Questo Carlotta lo disse a Rita soffiandolo tra i denti, a voce bassa e sibilante, più che altro una specie di pensiero da rivolgere a se stessa. Mentre lo diceva già si sentiva in colpa per averlo fatto, quel pensiero pieno di insofferenza. Sua sorella che colpa aveva se era malata. Rita intanto non era più lì, gli occhi stretti e i pugni chiusi, dura come sasso e rigida come se l’avessero congelata all’istante. Un rigo di saliva a scendere dal labbro inerte. Sul volto un’espressione mesta, la trasformazione del sorriso dolce che aveva stampato in faccia poco prima, quando avevano deciso di andare a fare la spesa. Mentre parlavano di un’assurdità che le faceva tanto divertire. Stavano per uscire insieme, come ogni sabato. Come ogni volta che Rita doveva andare da qualche parte, e da sola non era proprio il caso di mandarla. Non lo era adesso e non lo era mai stato, a memoria d’uomo e di sorella. Quando era più giovane, il fatto, la cosa innominabile che non aveva nome, avveniva più raramente, ma sempre con tempismo micidiale. La partenza per le vacanze, mentre in fila per il check-in loro due avanzavano compatte – una lieve e inconsapevole e l’altra concentratissima -  e Carlotta pregava fai che non accada fai che non accada, e invece accadeva; un esame all’università, preparato da mesi, che si doveva rimandare perché quella mattina, proprio quella mattina, era successa quella cosa, e lei doveva aspettare che Rita si risvegliasse prima di poter andare in facoltà, e allora stava con l’orologio alla mano a contare quei quaranta schifosi minuti: e non uno di meno ne passava; la morte di un congiunto, perché anche i morti dovevano avere pazienza e attendere il ritorno di Rita dal paese di vattelapesca.
Perfino durante il matrimonio di Carlotta, il cervello di Rita aveva deciso di prendersi quaranta minuti di ferie. La sposa non aveva battuto ciglio perché se l’aspettava e con i testimoni e il prete si era già accordata. L’avevano ricoverata in sacrestia aspettando che le passasse, tanto ormai tutti sapevano che non era niente di grave. Se ne era restata secca e rigida nel suo abito di seta color glicine, imbellettata e con le unghie posticce, sdraiata in terra sotto a un crocifisso dolente e pieno di ragnatele. Alla fine della messa non aveva più alcun sintomo e dopo era stata bene per tutti i festeggiamenti - aveva ballato, riso e perfino alzato un po’ il gomito -  e anche per i sei mesi successivi. Il suo male era senza nome. Non si trattava di crisi epilettiche, non era narcolessia. Non c’era stato un medico in grado di fare una diagnosi. I macchinari che le avevano collegato al cervello durante una delle sue “pause” avevano denotato un’attività celebrale normale e anche la tac non aveva segnalato anomalie. Durante quegli episodi, il suo cuore batteva al ritmo giusto, la pressione era nella norma. E intanto Rita, rigida come qualsiasi materiale rigido, non era più lì. Dopo, non ricordava niente: stava bene e aveva solo una gran voglia di cioccolato. Carlotta guardò l’orologio, erano passati i quaranta minuti canonici. Rita le sorrise passando dalla modalità ibernazione a quella scongelamento.Carlotta però non sorrise, non era dell’umore giusto. Si guardò intorno cercando l’ispirazione per un po’ di allegria ma quello che vide la fece invece precipitare ai minimi storici del buonumore. Due sorelle cinquantenni riflesse nel vetro di un quadro appartenuto alla loro famiglia che non esisteva più. Intorno, tutta una serie di ninnoli che costavano una manutenzione eccessiva per via dello spolvero necessario e periodico ma che Rita continuava ad ammassare. Tempo sprecato. Fu quello il pensiero che le venne in mente e certo non servì a rasserenarla. Minuti di una vita passata nell’attesa che a sua sorella venisse un’altra crisi e intanto tutto il resto che girava intorno, sempre per cose necessarie e periodiche, ma a suo modesto avviso non indispensabili.Ciò di cui Carlotta non avrebbe voluto fare a meno era da un’altra parte e riguardava la vita che non aveva vissuto, quella per cui le era parso, fino a poco prima, di essere ancora in tempo. E invece ora non ci credeva più. Certo, nessuno l’aveva obbligata a rilevare il negozio dei suoi, continuare l’attività, prendersi cura di tutto, farsi una famiglia che non l’aveva soddisfatta a pieno - un marito egoista e un figlio prepotente non contribuivano certo a farla sentire realizzata - e inserire nella routine pure Rita con le sue crisi. Si faceva così, da che era al mondo. A casa loro si faceva così: la gente cercava di seguire il solco di quelli venuti prima, e quando se ne separava era per farne uno parallelo e non troppo distante. Certo non per girare sui tacchi e andarsene. Era questo, infatti, il suo sogno segreto, quello che covava dentro e proteggeva, rinchiuso in un cassettone a sette mandate. Fare un inchino, un sorrisetto soddisfatto e dire a tutti – ok, ora io me ne vado –La destinazione era l’Africa o talvolta l’India: a seconda dei periodi e degli umori, vedeva se stessa, perlopiù lungo un fiume dalle acque limacciose e veloci, seduta a gambe incrociate senza fare niente. Intorno erba verde. Nient’altro. Né fame né sete né cuore che batte né ansia né crisi di sua sorella né negozio né soldi. Soltanto lei seduta sulla riva di un fiume. Forse in attesa della morte ma in santa pace.Improvvisamente si illuminò. L’argomento non veniva mai affrontato. Un paio di volte che Carlotta negli anni ci aveva provato, Rita era scoppiata a piangere perché l’aveva presa come un’accusa, quasi avesse insinuato che lo faceva apposta, a stare male.Quel giorno lì si vede che le cose dovevano andare diversamente. Rita era forse resa calma dall’effetto della crema di nocciole e rispose placida. Mentre si addormentava rifletteva su ciò che avrebbe potuto fare, per liberare se stessa e sua sorella da quella condanna. Se Rita fosse guarita lei avrebbe potuto finalmente andarsene, senza preoccuparsi che in sua assenza le accadesse qualcosa. Avrebbe avuto una vita di cui poter pienamente disporre. L’India e l’Africa erano di nuovo a portata di mano.Forse perché si trovava in una condizione simile a quella del pensiero che stava per generare, fu nel dormiveglia che le venne in mente l’ipnosi. Le parve una soluzione talmente bella e ovvia, così facile da praticare e di sicuro giovamento, che non riuscì più a chiudere occhio per l’eccitazione, e chiamò Rita alle prime luci dell’alba per metterla al corrente e sentire cosa ne pensava.Lo studio dello psicanalista era coperto di legno scuro, pavimento e pareti, e pareva lo stomaco di un grande cetaceo. Carlotta pensò per un attimo che se il legno fosse stato chiaro quel luogo sarebbe stato simile a una sauna. Rita aveva accettato con entusiasmo di farsi ipnotizzare. Credeva nelle reincarnazione e, per una sua predilezione per le mummie e i cartigli, era certa di aver avuto una vita nell’antico Egitto, per cui non vedeva l’ora. Era da sempre un suo desiderio segreto, qualcosa che non aveva mai avuto il coraggio di chiedere, per paura di essere derisa. Trovarono tutto in ordine, come nei loro pensieri avevano immaginato dovesse essere: un uomo vestito in giacca e papillon, con il ventre appena prominente, una bella barba alla dottor Freud, sulla scrivania una sveglia incastrata in un blocco di vetro, alcune matite appuntite vicino a un blocco di carta bianco avorio. C’era il lettino, c’era un divano capitonnè e una bella poltrona Frau. Tutto color cuoio, in tinta con il ventre del cetaceo. Nell’aria profumo di inchiostro e vetyver. Nessuna meraviglia che le pazienti finissero per l’innamorarsi dei proprio analisti, così rassicuranti e paterni. Non potevano saperlo ma era un pensiero che Carlotta e Rita stavano condividendo contemporaneamente. E se avessero potuto regredire insieme, per quell’uomo si sarebbero tirate e strappate i capelli a ciocche, e prese a calci e morsi, solo per poter dire “è mio”.Ma la regressione costava cento euro all’ora ed era tutta per Rita. Che infatti stava in piedi a guardare quell’idolo barbuto, e intanto aveva le guance un po’ arrossate, i battiti appenaaccelerati e un sorrisetto all’angolo della bocca che voleva dire “tocca a me”.Carlotta si consolò pensando di odiarla e che quel momento di esclusione le sarebbe servito a guadagnarsi la libertà. Do ut des: una delle citazioni preferite della loro madre, che usava Mitsouko, amava ballare e trascinarle per musei all’inseguimento di un non afferrabile senso del bello, del preciso e del perfetto. Come da contratto, il medico fu di pochissime parole. Rita si trasferì nel lettino e a Carlotta parve di vedercela arrivare per levitazione. Il gioco di prestigio aveva già avuto inizio e come tutti i giochi di quel genere la vera bravura era stata quella di celare agli occhi degli astanti il momento esatto del primo ciak. Anche la seconda fase le sfuggì, si era distratta con la levitazione e ammirando le pieghe del vestito di Rita, così si era lasciata scappare le parole magiche. Lui aveva sussurrato? Parlato? Cantato in una strana lingua? Si chiese perché mai sua sorella avesse deciso di mettersi un abito invece che comodi pantaloni. Ah, già, le assistenti del mago hanno sempre una gonna da far ciondolare a terra mentre lui le taglia a metà. Evidentemente era già d’accordo con lui, c’era un copione da rispettare e la stavano prendendo in giro. Lei era il pubblico inconsapevole da gabbare. E avrebbe magari dovuto anche applaudire, alla fine. E stupirsi della loro bravura. Si sentiva esclusa. O magari compresa, eppure ai margini di quella recita in cui capiva di essere necessaria a qualcosa. Tutto pareva, comunque, sfuggirle. Appena riusciva a fissare un pensiero capiva di aver perduto una parte del tutto, un fotogramma indispensabile a ricostruire la storia. E allora doveva provare a inventare, distraendosi e perdendo ancora terreno.Il respiro di Rita era regolare, la voce con cui rispondeva al prestigiatore chiara e senza esitazioni. Ecco, aveva perso un’altra fase, quella in cui sua sorella era regredita dai quarantacinque ai cinque anni. E il resto? Tutte quelle cose che tra sorelle si possono dire e loro non si erano dette, la prima sigaretta, il primo uomo a venirle dentro, quello che avrebbe voluto e non aveva potuto avere. Quello che di lei detestava, quello che amava contro ogni evidenza contraria. O che le aveva fortemente invidiato. Un figlio, forse.Il pensiero venne interrotto dalla voce infantile di Rita. Era allegra, stava salutando qualcuno. Carlotta si fece attenta e non perse più neanche una parola della bambina che saluta lo zio, lo zio bello e caro che sarà anche padrino di Carlotta, quando nascerà, e che a Rita vuole così bene, tanto tanto bene, perciò porta alla mamma in regalo quei fiori, quelli difficili da pronunciare e che lei chiama i fiori del paradiso. E a Rita invece della cioccolata, da mangiarsi tutta prima che arrivi il babbo. Senza macchiare, per benino a morsetti piccoli piccoli, sul lavandino del bagno, in punta sullo sgabello, intanto che la mamma sistema i fiori. Che ci vuole a sistemare i fiori, ci vuole il suo tempo. Quaranta minuti più o meno. Quaranta minuti esatti il giorno che Rita scivola dallo sgabello e sbatte la testa e allora disobbedisce, esce dal bagno, e per questovede tutto quello che c’è da vedere.
Ora Rita ha un’espressione serena sul volto. Il medico le dice che è tutto a posto, e che al risveglio non ricorderà niente e sarà guarita. Poi lui ha un guizzo di vanità professionale, assolutamente lecita anche in un prestigiatore di livello, e si gira per l'applauso. Verso Carlotta, che non può vederlo né sentirlo né battere le mani. Seduta, gli occhi stretti e i pugni chiusi, dura come sasso e rigida come se l’avessero congelata all’istante. Un rigo di saliva a scendere dal labbro inerte.
Roberta Lepri

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