Mia madre me lo racconta ogni volta che combino dei guai.
- Se ci fosse tuo padre - dice. Poi si gira e continua le sue faccende, soprattutto spolverare, che è la cosa che le riesce meglio. Ha sempre avuto una particolare inclinazione per lo straccio mangiapolvere, accompagnata da una spietata avversione per gli acari. Gli acari, misteriosi minuscoli mostruosi, pare che zampettino sopra le lenzuola e tra le pieghe di qualsiasi divano di famiglia. Completamente inutile spolverarli via, tanto poi tornano.
Mio padre non è più tornato, neanche dopo che la mamma fece un appello su RaiTre, pregandolo di fare ritorno a casa e di finirla con queste sceneggiate. Pensava fosse scappato, ma da solo. Di mariti che vanno via di casa con una ballerina, è piena la storia. Lui se n’era andato, senza uno straccio di amante, magari anche straniera, che almeno avrebbe giustificato tutto.
Quando mio padre si è perso, io non ero ancora nato Poi nacqui lo stesso, ma con addosso un segno indelebile del dubbio, trasmessomi dal genitore scomparso, una specie di punto interrogativo, inciso sul mento. Non molto grande e vistoso, non abbastanza da farmene un complesso. “Che hai da guardare?” sembro dire quando qualcuno mi guarda in faccia. Mio padre, anche lui aveva questo segno, dice la mamma. “Cosa ci faccio qui?” sembrava dicesse a chi lo guardava in faccia.
Certo, nel corso degli anni, adesso che ne ho trentadue, ho capito che mia mamma sul divano forse apprezzava più la presenza degli acari che quella di papà.
Poi ho cominciato ad avere una curiosità, un prurito sul mento. Gli acari provocano prurito, stavo sempre più tempo sul divano a guardare mia madre che spolverava le mensole i ninnoli i cigni di cristallo. Mi grattavo il mento, osservando una vecchia foto di mio padre a cavallo. Non aveva mai posseduto un cavallo e dallo scatto si percepiva benissimo che si trattava di una di quelle sagome per le foto finte. Ma che gli piacesse la campagna era un fatto inequivocabile. Girando per i fondi dei cassetti, mi imbattevo in vecchi pacchettini sgualciti con semi di zucca, ceci secchi, un coltello da innesto, manuali sull’allevamento della chiocciola e sulla potatura. La mamma non gli avrebbe mai concesso di possedere e accudire un orto, un frutteto. Per che cosa poi, per introdurre terriccio germi e parassiti sotto il tetto coniugale, e soltanto per soddisfare un egoismo, che poi le verdure marciscono pure e non si fa in tempo a consumarle tutte e bisognerebbe avere una casa-frigorifero.
- Casa nostra, non si compravano mai verdure - dice la nonna mentre prepara la sua minestrina.Non ci vado spesso a trovarla e quando mi vede mi riconosce poco, ricorda meglio le cose molto antiche, di quando era bambina, di quando era sposina.
- Scusi, ma lei chi è? - mentre mi guarda sul divano accanto a lei.
- Il figlio di tuo figlio Antonio, quello piccolo.
- Ah, - dice lei - io ne ho uno solo figlio piccolo. Ma quando ero bambina io, non se ne compravano, verdure. Cavoli, lattughe, pomodori, piselli, fave, cipolle, aglio e melanzane. Poi il basilico, la salvia, la menta, il prezzemolo, il rosmarino. Poi, i conigli, i polli, il maiale, i tacchini e le oche.
Quando ha finito, il suo pentolino si è bruciato sul fornello, ma tanto lei voleva il latte, non la minestrina.
- Ti ricordi, nonna, tuo figlio Antonio, quello che non si trova più.
- Ce ne ho uno di figli, uno solo - mi guarda seccata.
- Ma sei sicura?
- Sicura… sicura è solo la morte - risponde dubbiosa, e si gira a sistemare il pentolino bruciato dentro il frigorifero. Esco dal portoncinocon il dispetto di chi non ottiene udienza, malgrado tutti gli sforzi, e poi la nonna ogni tanto tira fuoriquesta storia del figlio unico
Lo zio Piero nel suo studio buio di pittore fuma e strizza gli occhi. Non si vede bene quello che c’è intorno, né quello che sta dipingendo.
- Entra entra che devi abituare gli occhi - mi invita senza guardare. È un po’ trasandato, con barba e capelli troppo incolti, poco loquace, ma mi vuole bene. Mi mostra le ultime opere, scure, fumose, nebbiose, nere.
- Tutti i quadri rappresentano questa stanza che è il mio mondo - dice.
Infatti da quella stanza semibuia non esce mai. La mamma mi ha sempre scoraggiato a frequentarlo troppo spesso, questo posto ricettacolo di polvere e di chissà quali parassiti inestirpabili.
- Lascialo nel suo brodo, ha scelto così, ognuno fa quello che vuole.
La nonna adesso nega pure la sua esistenza. Non si vedono da troppo tempo e forse non si sono mai visti. Sulle foto che ho trovato lui non c’è mai. Solo mio padre sul cavallo, sul camion, sul trattore, al mare. Mi viene da grattarmi. Dov’era lo zio Piero quando mio padre si è sposato, dov’era quando la guerra era finita e tutti festeggiavano, e quando si guardavano le partite di pallone tutti insieme al bar?
Lui nella penombra del suo studio ci sta bene, ha gli occhi abituati, ma io con questo prurito sul mento non resisto un minuto di più.
Ha ragione mia madre, militante anti-acaro, chissà a quali malattie infettive allergico-respiratorie innominabili vado incontro se rimango ancora qui dentro.
Ha avuto ragione mio padre, cavaliere represso, che alla mangia-polvere forse ha preferito una mangia-uomini.
Ha ragione la nonna, bambina rifiorita, che sostiene di avere un figlio unico, ma non sa chi sia dei due, perché fra poco non riconoscerà neanche sé stessa.
Ha ragione lo zio, pittore neofunereo, a volere rappresentare sulle tele la stanza caliginosa, di sicuro ormai la conosce meglio del proprio volto.
Adesso glielo chiedo, diretto in faccia, nella lama di luce bassa che filtra dalla finestra chiusa, ma lui mi anticipa.
- Allora, domani me le porti le sigarette? - e mi guarda, aspirando una boccata profonda dalla sigaretta con il bocchino, ruota gli occhi, come per dire Cosa ci faccio qui?.
- Certo, certo, - rispondo io - come ogni giorno.
Torno a casa di corsa, con il mio punto interrogativo sul mento.
Raimondo Quagliana