Anche le nuvole bianche erano carta buona per scrivere, lo sapeva bene. Le parole, come anelli, le si erano infilate al dito, le aveva sposate con una cerimonia durata trent’anni. A celebrare le nozze era stato suo padre con racconti che somigliavano a fiabe, con aforismi e detti popolari. Così le aveva insegnato la vita e il dialetto.Adesso atterrava sopra un tramonto color zafferano, all’aeroporto, ribattezzato da poco, Falcone-Borsellino. Respirando dentro i colori di quel cielo mai visto riconosceva già i racconti di suo padre conservati nell’anima insieme a limpide foto. Nell’attesa delle pesanti valige, tra tante mani protese, guardava la gente che le stava intorno; erano facce pallide, come la sua, scolorite da un sole ingannevole, ma piene delle attese migliori. A Palermo non si viene per il viaggio della speranza, la guarigione si cerca altrove, pensava Giovanna, eppure in quelle facce le sembrava di riconoscere la voglia di guarire, magari con una vacanza, magari riabbracciando gli affetti più cari. Osservava con avidità. Aveva capito quante parole c’erano dentro ogni sguardo e quanto sentimento dentro ogni parola. “Deformazione professionale” avrebbe detto chi avesse saputo. Scriveva da anni. Ma lei, che sapeva rintracciare un’emozione perfino nel vuoto dell’aria, non avrebbe abbracciato nessuno. Morto suo padre, aveva deciso d’intraprendere quel viaggio in cerca dell’ispirazione, di un luogo che la riavvicinasse a lui o che le regalasse qualcos’altro che ancora le sfuggiva.Aveva tirato giù la prima valigia con un gesto goffo. Un omone, che aveva misurato ad occhio lo scompenso di forze tra le sue braccia e il bagaglio, l’aveva aiutata.Aveva compiuto trent’anni sotto la pioggia incessante di Ratisbona. La Germania le aveva dato un ospedale pulito per nascere, l’aveva sfamata e cresciuta. Nient’altro. Non le aveva dato un orizzonte verso il quale guardare, solo un muro di nuvole, nere d’inverno, bianche d’estate. Un muro di pioggia battente, da chiudersi in casa senza voglia di uscire. Non le aveva dato un mestiere se non una penna con la quale fuggire. Non le aveva dato neppure un amore importante per il quale rinunciare al resto del mondo. E lei era rimasta lì, nell’attesa di concludere il suo ruolo di figlia, figlia di un questuante di sogni, un lavoro e una vita migliore.Quella terra le sembrava nemica, forse, per via dello zio Totò ucciso da un soldato tedesco nell’ ultima guerra. Un soldato che, magari per sorte, era anche padre di quell’ altro tedesco che, per amore, si era portato sua madre.
Non aveva conosciuto la madre né lo zio e le immagini di quella parte di vita mancavano come acqua alla fonte; eppure lei n’era una traccia tangibile. Giovanna era lì grazie a sua madre, suo padre era lì grazie al fratello che gli aveva salvato la vita offrendo la sua. Né l’odio irrazionale né l’amore temerario avevano impedito, dunque, il miracolo della sua esistenza. Ed a quel miracolo Giovanna sentiva adesso di dover dare un senso, rintracciando magari la terra dove lei era già stata concepita insieme al progetto di una vita diversa. Aspettava ancora la seconda valigia ed in testa aveva il rumore della pioggia che aveva sentito per tutta la vita. Uno scroscio assillante che dava troppa voce ai tetti spioventi e, con il vento, perfino la parola ai fantasmi. Primi fra tutti lo zio e sua madre.Le nuvole bianche, nei giorni migliori, erano state la carta lontana sulla quale aveva scritto tante storie con gli occhi. Le nuvole nere erano state lavagne tracciate col gesso, ricaduto, ogni volta, su di lei come neve.Nell’ultimo tratto di volo aveva visto appezzamenti di terra color tabacco e montagne senza una macchia di verde, oppure con qualche chiazza, sparuta e sbiadita, ma sempre montagne stranamente celesti. Non più il cuscino di rami, rigidi, nascosti da foglie di un cupissimo verde. Tutto era accerchiato dal blu, ne distingueva la misura coi palmi di un sentimento; in gola il fiato sospeso, nel petto una gioia recondita e per questo profonda ed immensa, più del mare lì sotto. Non più il verdastro Danubio raggiunto dal Regen. L’aereo era sceso di quota e la pista, infine, aveva incollato lei alla terra di suo padre, come due calamite.Ecco cosa era venuta a fare, riconquistare due zolle di terra per piantarci la sua anima bianca e l’aveva capito, finalmente, atterrando sopra quel tramonto color zafferano e guardando quelle facce pronte a guarire.
La seconda valigia è arrivata.
Fuori dall’aeroporto l’abbraccia l’aria calda di luglio, la stessa, che attraverso i racconti, l’aveva scaldata nei giorni più freddi. Vede l’omone a dieci passi da lei, si scambiano un breve saluto con un cenno di capo e mezzo sorriso. Era partita senza salutare nessuno, qui già saluta qualcuno. Vede quattro sconosciuti abbracciarsi, si sente lì in mezzo, tra loro. E’ strano, è contenta anche lei per quegli abbracci, non si chiede neppure perchè. Non sente più la pioggia dentro le orecchie, ma sente suo padre accarezzarle il viso, la mano calda, un soffio di scirocco. Con un gesto istintivo alza gli occhi cercando una nuvola bianca, è un tuffo, magnifico, dentro la pagina nuova. Qualcuno la urta col gomito, le sorride e si scusa e Giovanna adesso ha capito che anche l’abbraccio verrà.Adelaide Pellitteri