Tema: L'altro cammello

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Il cammello si chiamava Cammello.O meglio, questo era il nome che gli aveva dato il suo proprietario, un re magio che aveva ricevuto quella bestia in regalo da un vecchio parente. Ma la mamma, da piccino, quando era pronto il latte, diceva: “Gesù, svelto, che sennò si raffredda!”. Era molto tempo prima, anche se Cammello non sarebbe stato in grado di dire quanto. Il Sole si alternava alla Luna tutti i giorni; qualche volta li vedeva insieme, alla mattina presto, mentre aspettava che gli uomini si svegliassero, che uscissero dalla tende – l'aria era ancora fredda e tersa – o poco prima del tramonto, quando il cielo diventava blu, e la sabbia scottava come pane caldo. Ma anche se non aveva mai contato le albe che aveva visto, le ricordava tutte.Era ancora piccolo quando era stato stato venduto la prima volta; poi fu regalato, rubato, abbandonato, salvato, di nuovo venduto, ereditato, rapito, di nuovo venduto... Il suo attuale proprietario era un commerciante, e non era re, e non era magio – i grossolani errori di traduzione di cui era pieno il libro che, anni dopo, avrebbe raccontato la loro storia. Si faceva chiamare il “mago della mirra” perché aveva prezzi bassi e qualità tutto sommato discreta. Un tipo grosso, peloso e molto pratico: soldi, partita doppia, bilanci. Il suo migliore amico era il commercialista. Un uomo sempre in movimento, insomma, con il talento naturale di chi rende semplice ogni cosa. Quella mattina, però, si era svegliato male. Guardava il cielo con sospetto, come se un cliente volesse tirargli un pacco. Nel pomeriggio, la sua inquietudine era diventata rabbia. Girava per il negozio imprecando: perché proprio io? 


Quella sera a Cammello fu servita la cena abbondante che precede i lunghi viaggi, accompagnata da un centinaio di litri d'acqua. Presto, forse la mattina dopo, si sarebbero messi in marcia. Erano le notti che preferiva, quelle in cui si attendeva la partenza: il brusio dei servi che preparavano le borse, le provviste accatastate, le candele accese. Più tardi, quando tutti già dormivano, vide il suo padrone alzarsi, andare verso le stalle, e guardare in alto, a scrutare il cielo, ancora inquieto. Qualche volta, durante le notti passate in mezzo al deserto, accampati in una valle silenziosa, vicini a una pozza d'acqua, l'aveva sorpreso a parlare con la Luna. Pareva che le domandasse a cosa servissero tutte quelle stelle, cosa fossero quell'immensa solitudine, quel silenzio sconfinato. Il cielo, là sopra, sembrava non finire mai; e il mago della mirra stava là sotto, piccolo come una formica, e parlava alla Luna fino a quando il fuoco non si spegneva, e allora si avvicinava a Cammello, gli dava uno scappellotto in testa e gli diceva beato te che non pensi a nulla; poi si metteva accanto alle braci e con un legno le ravvivava, e a lui sembrava che gli occhi del suo padrone luccicassero. E quella notte era proprio una di quelle notti in cui le stelle del cielo sembravano voler dire qualcosa – qualcosa sull'essere grandi, e qualcosa sull'essere piccoli – ma era una lingua che gli uomini non capivano: pensavano troppo. Poi le palpebre iniziarono a pesare per il sonno, e proprio mentre si stava addormentando gli parve di udire in lontananza il pianto di un bambino, il dolce ssshh di una mamma, il fruscio di una carezza ruvida e paterna, il lento respiro di due bestie che con il fiato scaldavano l'aria fredda. Allungò il collo e si guardò intorno. Non c'era nessuno, ma non si preoccupò: sapeva che le cose esistevano anche se non le potevi vedere. Intanto i servi avevano spento le candele, e il padrone era tornato in casa: allora, con un sospiro appoggiò la testa sulla sabbia, e chiuse gli occhi, e sotto il cielo stellato iniziò a sognare la notte in cui sua madre, la creatura più dolce della terra, lo aveva messo al mondo, nel tepore di una stalla.Paolo Zardi

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