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Giovanni Papini, Firenze – Arno

Da Paolorossi

[...] quando s' arriva alla primavera e le nevi si disfanno e i torrenti impietrati dal gelo ricominciano a ruzzolare fra i massi e le macchie e l'erbe fiorite nuove allora il mio fiume rischiara la sua acquaccia gialla, e diventa limpido e chiaro come un ruscello del Falterona, e si fa di color verde forte con carezze di celeste, simile agli occhi di una donna settentrionale e cattiva.

Tra fiume e cielo se la intendono, per mutar colore. Ci son mattine di nebbia in cui il fiume sembra bigio, denso e terroso, come il ceneraccio di un bucato ; verso il tramonto, se quel civettone del sole si traccheggia sull'orizzonte per farsi ammirare dai poeti a spasso e dai pittori all'arancione, l'acqua par latte color di perla, increspata qua e là dal brivido di un risucchio o dalla scia di una barca ; la notte, poi, ha l'aspetto di una riviera infernale di antracite liquefatta, spolverizzata qua e là dall'argento della volubile luna o dall'oro a dodici dei lampioni.

Con quanta soddisfazione il fiume deve oltrepassare i nostri lungarni e avvicinarsi laggiù, tra le sentinelle dei pioppi e i sassi bianchi del greto, verso il divino inghiottimento del mare !

Qua dentro è sagrificato ; non ha vita sua ; sente d' essere uno spostato, un disturbatore della pubblica quiete. Soltanto la notte ha il coraggio di far sentire il suo gorgogliante brontolìo mentre batte contro le pile dei ponti o casca giù dai falsi scalini delle pescaie.

Di giorno non è mai solo. I renaioli lo fregano colle pale fin giù al fondo ; le tradite dall'amore e i malati incurabili gli fanno fare da boia involontario e gratuito ; e le lavandaie - brutte lavandaie cittadine che andrebbero lavate tutte intere assieme ai loro panni - gli sbavano addosso, vociando, loia e saponata.

Ma la notte anche lui si raccoglie : si sente, fra il silenzio dei duecentomila sonni, più vicino alla sorgente e alla foce. È il tempo sacro dei meditatori rivieraschi. Dopo che 1'ultima carrozza ha rintronato lungo l'immobile processione del gas, dopo che 1'ultimo bottegaio nottambulo, che comincia a sentir troppo fresco, s'è rimbucato, vengono alle spallette i contemplatori dell'eterno fuggente fluviale. Non v'è spettacolo più filosofico di un fiume che scorre. Il ragazzo che butta i sassi nell'acqua e sta a guardare le tremanti ruote finché la corrente le vince la sa più lunga del pedagogo che lo chiama fannullone.

[...] Nello scambio millenario che accade fra il cielo la montagna e il mare chissà quante di queste goccie ripassano, limpide o lorde, fra mezzo alla stessa città. E passarono fra le tenebre e ora ripassano sotto la luce ; passarono tra il frastuono dei mulini e ora sotto la sorda quiete delle muraglie ; passarono col disgelo di aprile e ora precipitano colla stanca pioggia d'ottobre.

La città è cambiata, è più grande e più brutta ; gli amanti che si stringon le mani per i lungarni o si buttan giù a cercar pace non son più gli stessi ma l'acqua è la medesima sempre, non più frettolosa, non più lenta, e scorre nel medesimo letto verso il medesimo mare, specchiando il cielo che muta ogni giorno ed è sempre lo stesso. Il fiume, anche chiuso fra pietre squadrate, è una forza della natura, un figlio del sempre e non dell' oggi.

Questo solco, questo spacco, questo taglio pieno d'acqua fuggitiva è un segno e un ricorso dell' infinito in mezzo alla miserabile brevità delle nostre case d' orgoglio e di sasso.

( Giovanni Papini, brano tratto dal racconto "Il mio fiume" , pubblicato nel libro "Cento pagine di poesia", pag. 34/37 - Vallecchi Editore - 1920 )

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