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Tema: La lepre bianca

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SvolgimentoTema: La lepre biancaDettagli, solo quelli riusciva a vedere. Dettagli minimi senza nessuna importanza, che si affastellavano nella sua testa, come covoni disordinati, mentre guardava la scena da quel tratto di strada che si perde tortuosa tra mais e menta, in ordine anche per alfabeto . “La linea della strada è il segno delle sconfitte o delle vittorie” pensava “una strada diritta, una napoleonica, è il segno di una dittatura, l’imposizione sulla carta della volontà di ridurre tempi di percorso, tempi di attesa, volontà di annullare il viaggio per l’urgenza del raggiungere, per la premura del fare. Un viottolo storto, un po’ sghembo, tortuoso, riluttante a raddrizzarsi anche in vista della meta, era il segno del sacrificio, del non dover chiedere attraversamenti, riduzioni, spostamenti, cessioni di parti. Apparentemente una sconfitta contro il tempo e la natura, anche quella umana che non sa privarsi di quello che gli pare proprio e che invece  è solo occasionale; in realtà è la più solenne delle vittorie. Per percorrere questa strada dovevi averne di tempo e non facevi torto a nessuno”. Questo a Ettore piaceva. Gli piaceva pedalare piano per quella strada che costeggiava poche cascine e un paio di fontanili. Ettore ne conosceva tutti i dettagli, sapeva i mattoni sull’angolo della cascina rossa. Ricordava esattamente la buca dopo l’olmo, che veniva dopo il ponte, sull’unico fosso attraversato. Quella buca per quanto si facesse, restava sempre. Veniva coperta ad ogni elezione, riempita di asfalto e promesse come tante altre strade, ma bastavano già i primi grossi temporali estivi, quelli che facevano tracimare i fossi, come le prime difficoltà della giunta alle prese con un bilancio sempre più smilzo, per lavare la stradina e levare i grumetti di asfalto, gettati li a palate, che non si erano amalgamati, come le parole delle campagne elettorali. Buttati li ma non cementati da nessun processo di coesione. Coesione gli faceva venire in mente l’uovo aggiunto alla farina, se non ci fosse, la pasta sarebbe friabile. “Ecco la volontà politica è l’uovo, che poi è vita, se no restano frammenti, promesse buttate li… devo ricordarmelo per il prossimo discorso”.  Si ma il prossimo discorso di uno sconfitto da poco non sarebbe stato vicino, forse solo alla prossima campagna.
Ettore lo sapeva bene. Ne aveva fatte di campagne: otto e l’ultima l’aveva persa; per poco ma l’aveva persa. Una battaglia a due persa per 51 voti. 26 persone non convinte. Ci rimuginava da tre mesi ormai.  Anche lì vedeva solo i dettagli. Tutti li conosceva gli elettori. Tutte le manie. Anche tutte le debolezze, azzardava.  Avrebbe dovuto vincere a mani basse, invece avevano vinto i cantastorie. Sì, i cantastorie, non i contastorie. Spariti quelli, se li sarebbe mangiati. Questi erano i cantastorie, quelli che cantano, che suggestionano con la musica delle parole;  non con l’inganno delle promesse, ma proprio con il suono delle parole. Quasi giovani, quasi spavaldi, quasi competenti, soprattutto molto ma molto addestrati ad ascoltarsi. Pifferai magici di parole. Non semplici imbonitori da mercato. Seduttori con l’esca di una quasi bellezza. Ettore non se lo perdonava. Ettore pensava che erano più pericolosi degli imbonitori. Ed era così arrabbiato che quasi non si accorse della lepre bianca che ferma sull’orlo del fosso lo fissava muovendo lentamente le labbra senza scoprire i denti.Interruppe il flusso dei dettagli: un sasso davanti alla ruota anteriore, un’ombra di uccello grande, probabilmente un airone, tracce del passaggio di un carro con cisterna spargi lettame che doveva aver gocciolato abbondantemente, un ciuffo di artemisia, la lepre. Ettore frenò piano. Mise a terra lentamente il piede destro badando a non pestare le tracce di lettame, restando con il sinistro sul pedale senza più muovere la biciletta. La lepre era lì a sfidare tutti i suoi dettagli, pareva sapere ogni cosa del mondo intorno, non si preoccupava di lui nè di niente altro, aspettava. Cosa aspettava? Si chiese Ettore. “Non è stagione di caccia questa” annotò mentalmente ripassando le date che sapeva a memoria, e non c’erano quindi né spari né latrati, e la lepre pareva saperlo, ma gli sembrava che aspettasse per orientarsi. Il sole c’era, bastava guardare verso le montagne per rendersi conto che sarebbe tramontato al massimo entro un’ora. Predatori forse? Non era più l’ora dei diurni e non ancora quella dei notturni. “Ma poi” pensò Ettore “una lepre così chi se la prende … è un peccato”. Era bella.Quattro punti marroni ciascuno con un occhietto nero più piccolo al centro  sulla zampa posteriore destra, che era quelle rivolta verso Ettore. Il naso marrone e nero. La punta delle orecchie entrambe con una piccola macchia nera.“Che ci fai qui? “ penso Ettore e lo pensò talmente forte che pensò di averlo detto a voce alta e si stupì che l’animale non si fosse spaventato.   La lepre mosse appena la testa continuando a guardare nella sua direzione. Nord ovest. Cosa viene da qui? Ettore non vedeva dietro le proprie spalle. Il sole basso colpiva nuvole e le incendiava e azzurriva l’ombra delle montagne scavalcandole. Quattro cipressi verso nord ed un noce sperso in un campo distante due o tre ombre da questi si agitavano piano per un vento sottile e alto, che non aveva ancora raggiunto la quota di uomo e lepre ma che piano scendeva. C’erano tutti i colori da ovest ad est e adesso anche gli odori. Spinti piano da quel vento. La lepre mosse di nuovo un poco il capo. “Hai sentito qualche trifoglio?”. Ettore pensò che sarebbe stato bello che ci fosse stata Lucia adesso. Forse avrebbero litigato tutto il tempo. Lei a dirgli di andare più piano e lui a raccontarle dei 26 che l’avevano tradito, dando di pedale ad ogni parola amara per la rabbia di non cogliere il senso complessivo. Ma Lucia se n’era andata. Era morta per uno di quei tumori che ormai si curano ma di cui lei non si era accorta che troppo tardi; e neppure lui, sempre coi suoi dettagli, non ne aveva colto nessuno di pericoloso. Se ne era andata in fretta: 49 giorni e un po’. 1185 ore e 15 minuti. Ettore se li ricordava tutti i minuti, che erano pochissimi, anche se sembravano tanti. 71115 minuti. Era il tempo che era passato da quando la mattina di un martedì alle 9, seduti nell’ambulatorio dell’ospedale la dottoressa, anche lei di nome Lucia, aveva aperto una busta di esami e letto la sentenza, sino alle otto e un quarto di sera di un mercoledi di aprile, il momento in cui Lucia aveva chiuso gli occhi dicendo “adesso mi riposo un po’”. E Ettore si ricordava che sorrideva mentre lo diceva, non per la morfina. Lucia sì, leggeva tutto in un solo sguardo. Non vedeva i dettagli, vedeva il tutto, di tutti, subito. Ettore si volto verso ovest e vide per un attimo tutto, “Come vedi tu” pensò rivolto a Lucia e quasi gli tornavano le lacrime. Senti un moto di gratitudine immensa tracimargli dentro, un’onda di piena e di orgoglio per quanto gli aveva regalato, per il tutto che stava vedendo in quel preciso momento. Lucia sapeva e aveva capito tutto, subito. Lucia capiva l’importanza che i dettagli avevano per lui e gli aveva riempito  quei 71115 minuti di dettagli, pieni zeppi, lei diceva “pieni zuppi”. Pure se soffriva. Pure se soffrivano entrambi. Si rivoltò di nuovo; la lepre si stava allontanando, senza balzi ma manteneva la testa girata verso di lui o verso il tramonto o “verso Lucia” pensò Ettore benedicendo il cielo e la lepre.  Spinse il piede sinistro e mentre la bicicletta ripartiva con una piccola oscillazione, alzò la gamba destra posandola sul pedale bianco e marrone … stava bene con i pantaloni verdi e la scarpa scura. Respirò piano provando a guardare indietro, se vedeva ancora la lepre o il tramonto. “Chissà se c’è una “lepre bianca” tra quei 26” pensò. E tornò a guardare avanti le prossime buche verso casa.Gigi Baradello

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