Pasqualottu era il perfetto protagonista di molti racconti. Aveva la faccia paciosa del grasso che diverte e si poteva definire pachidermico: l’uomo più grande e grosso e grasso e enorme e immenso che abbia mai visto in vita mia.
Quando passava per il paese, in sella al suo motorino, sembrava che la forza di gravità fosse soltanto una opinione. Si teneva in equilibrio come per magia, per un miracolo delle leggi della fisica.
Il motorino scompariva sotto la sua mole. La testa però la teneva alta e la vedevo svettare da lontano.
L’Ollio del nostro paese era sempre molto concentrato nella guida, riuscendo a sorpassare quei pochi cavalli che ancora passavano e i ciclisti e i pedoni con una certa sua leggerezza. Un piccolo scarto dell’enorme corpo ed eccolo superare tutti con disinvoltura.
Il paese - proprio sotto Macerata, a cento metri sul livello del mare, come recita ancora una scritta sbiadita all’ingresso, dopo il ponte sul fiume Potenza - era disegnato su due file di case attraversate da una strada. Assomigliava ai tanti villaggi descritti dai film western all’italiana che la domenica pomeriggio riempivano il cinema CRAL.
Quella strada non era ancora percorsa dal traffico feroce dei decenni successivi, cosa che avrebbe impedito ad un personaggio “ingombrante” come Pasqualottu di passare indenne.
Il suo era uno di quei motorini senza marce, a presa diretta, bastava una pedalata per avviarlo. Sotto i suoi colpi sembrava andare in mille pezzi, invece partiva strombazzando rumorosamente.
Pasqualottu commerciava in ferro vecchio, gomme d’auto e di motociclette e altri residuati della prima società consumistica.
Lo vedevi gironzolare da un meccanico all’altro, caricando i pezzi sul piccolo bagagliaio con gesti lenti. Il suo migliore amico era uno di questi artigiani della rivoluzione economica del dopoguerra, che tutti chiamavano Pirelli.
Aveva addirittura fama di essere un guaritore, uno che con le mani riscaldava e aiutava i malati. Pirelli aveva sempre la sigaretta accesa tra le labbra e spesso ne appoggiava una da qualche parte sul suo bancone, dando fuoco a un’altra, senza accorgersi. Il vecchio mozzicone stava lì a consumarsi e il nuovo era succhiato avidamente, quasi si trattasse dell’aria necessaria a sopravvivere. Fumava sigarette tutte bianche, da signora, le Mercedes che adesso non si trovano più e che venivano vendute in pacchetti da dieci con la scatola di cartone.
Pasqualottu e Pirelli facevano coppia fissa nelle partite a briscola e tressette dei sonnolenti pomeriggi estivi, quando molti del paese si ritrovavano, dopo la pennichella, al bar di Tonino, davanti alla chiesa.
Giocavano contro un’altra strana coppia fissa: il parroco, Don Giuseppe, prete energico e inevitabilmente d’altri tempi - anche lui gran fumatore - e Rosario, detto Rosario U’ Rutì, juventino leggendario che aveva convertito alla fede della “vecchia signora” mezzo paese ed era titolare della tabaccheria, attaccata al bar di Tonino, dove il sabato si giocava febbrilmente al Totocalcio.
Durante quelle partite molto tese il prete e gli altri si facevano trascinare dal gioco e non si risparmiavano accidenti ed espressioni irripetibili per noi bambini. Don Giuseppe si lasciava travolgere dalla situazione, alla ricerca del modo giusto di combinare le carte, tanto da perdere in quei momenti il controllo. Il carisma del suo ruolo consacrato andava a farsi benedire - è il caso di dirlo - così tanto da scandalizzare le mie zie zitelle: Sittimia, Marietta e la zia Monnica suor Maria Isabella. Occorre dire che però non volavano mai bestemmie o maledizioni vere e proprie, piuttosto i quattro preferivano le colorite espressioni che si riferiscono alle solite vergognose funzioni del corpo umano, così care al linguaggio popolare.
Un prete che dice parolacce è comunque anomalo. Eravamo tutti molto puritani in quel periodo. Il cartello che vietava a norma di legge di imprecare contro il Signore veniva insomma rispettato, ma la caciara dei quattro era uno spettacolo. Si raccontava che una volta, il vescovo - era allora Ersilio Tonini, diventato poi cardinale emerito e molto famoso per le tante apparizioni televisive - fosse venuto a cercare Don Giuseppe durante una di queste partite (erano davvero altri tempi: un vescovo adesso non entra certamente in un bar con quella naturalezza). Mentre Tonini gli bussava sulla spalla, l’altro continuava la sua invettiva momentanea e senza accorgersi del prelato. Anzi, scansava il braccio del monsignore con dei gestacci. Gli altri, sbiancati e con mille segni, cercavano di avvertirlo, ma quello niente: era concentratissimo sulla scelta della carta da giocare e non voleva essere disturbato. Quando finalmente si voltò dicendo “chi è che me rompe li cojombri”, col tipico accento maceratese, capì di averla fatta grossa. Non finiva più di scusarsi e di baciare l’anello del vescovo.
Il monsignore intanto ridacchiava dietro la sua maschera finto-severa, segno che gli voleva un gran bene, a quel prete con la tonaca lisa.
Questo episodio fa capire come la quattrata a briscola e tressette fosse un duello serio. Bisognava non distrarsi e tenere a mente le carte uscite: in questo Don Giuseppe era un mostro di bravura. Pasqualottu era il più tonto e doveva continuamente muoversi perché sulla sedia ci stava a malapena, aveva la digestione difficile per via di tutto quello che trangugiava e tendeva ad assopirsi. Rosario era un buon giocatore ma era portato a distrarsi. Pirelli invece era scaltro: riusciva a comunicare le carte che aveva - a briscola è permesso far capire al compagno cosa si ha in mano - con mosse elaborate e molto teatrali.
Giocavano nel retro del caffè, sotto i pampini di una pergola, e i violenti raggi del sole pomeridiano, attraversando il versò, rendevano la scena spettrale, accentuando il carattere epico del momento, anche grazie al fumo delle tante sigarette, che danzava leggero nell’aria ferma. Somigliava a certe scene cruciali dei rari film in cinemascope che vedevamo, naturalmente western. Colori sgranati, vivissimi, quasi vibranti per l’effetto iperreale. Osservare quei quattro giocare a briscola e a tressette era qualcosa di impedibile che seguivamo di nascosto.
Se un compagno sbagliava una giocata erano guai e insulti. Sbocchi de sangue, sbocchi de veleno. Tu’ madre era meglio se se stava bona quella notte che è meglio che me sto zittu. Le assordanti cicale di quelle estati magiche si zittivano per le imprecazioni urlate dal prete e dai suoi compagni di gioco: il rumore di qualche rara auto sottolineava i momenti di silenzio e di concentrazione.
Don Giuseppe era un perfetto Don Camillo-Fernandel, con la sua mascella pronunciata e la voce tonante e i gesti decisi, con quei gran colpi che facevano sussultare il tavolo quando scartava un re o un asso. Anche lui era bravo a fare i segni. Un’alzata di spalle per il cavallo, la linguetta per indicare il re, ma come già detto Rosario si distraeva spesso, perchè la moglie lo chiamava in continuazione dalla tabaccheria. Così, per un’incomprensione di segni, una partita che il parroco stava conducendo tranquillamente alla vittoria, fu vinta dalla coppia avversaria: Pirelli e Pasqualottu sugli scudi, Don Giuseppe e U’ Rutì nella polvere. Grande smacco per il prete che vinceva quasi sempre e mai - ma proprio mai - perdeva contro quella coppia così scalcagnata.
Nella predica della domenica successiva, durante la messa delle 11, la parlantina di Don Giuseppe non trovava il verso giusto. Non gli era ancora andata giù la sconfitta e vedere i suoi compagni di gioco seduti allineati sulla stessa panca gli faceva tornare il tormento per quella partita persa stupidamente. Arrivò al fatidico “non voglio dilungarmi di più”, che significava un altro quarto d’ora di predica e soprattutto che il filo del discorso gli si stava intrecciando tra mille schiocchi di lingua. Stava girando attorno a un paio di concetti, da cui non riusciva a districarsi: gli ultimi che sarebbero stati i primi, secondo la parabola raccontata da Matteo; e il perdono come miglior vendetta: espressione popolare che non c’entrava nulla con i Vangeli ma che Don Giuseppe usava spesso. Non riusciva a perdonare la distrazione di U’ Rutì, né tanto meno il duo Pirelli-Pasqualottu che ne aveva approfittato. Cercava, se non la vendetta, almeno una rivincita pubblica. Lì, in quel momento. Dal pulpito. La parabola racconta di un padrone che esce all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna, accordandosi con loro per un denaro al giorno. Uscito poi sul tardi, ne vede altri che stanno sulla piazza disoccupati e dice loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. E quelli vanno. E così fa con altri operai. Quando scende la sera, il padrone della vigna dice al suo fattore: Chiama gli operai e pagali, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Anche quelli delle cinque del pomeriggio, ricevono ciascuno un denaro. Qui gli occhi del prete si sgranavano guardando ora qui, ora là, per poi fermarsi sui tre seduti vicini. Quando arrivano i primi che hanno iniziato a lavorare - continuava con gli occhi ormai da matto - pensano di dover ricevere di più. Ma il padrone sentenzia: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi.
Concluse quindi con un perentorio la miglior vendetta è il perdono, che in quel contesto non c’entrava niente. Per arrivare al dunque, Don Giuseppe avrebbe dovuto spiegare che quel padrone assomiglia al regno dei cieli che non guarda a quanto, ma a come. Trovava però grandi difficoltà a giustificare la presenza nel suo discorso di quel proverbio sulla vendetta. Così si intestardiva a cercare giri di parole su quella che poteva essere una vendetta mascherata da perdono, oppure dal giustificato senso di giustizia che ogni vendetta apparentemente fornisce come pretesto ad una risoluzione in un conflitto di interesse. Non c'entrava niente, con tutto quello che aveva detto prima.Il discorso cominciava a prendere una piega talmente ingarbugliata che si faticava a stargli dietro. Don Giuseppe naturalmente si riferiva alla partita a carte del pomeriggio di due giorni prima. Guardava i protagonisti del dramma uno ad uno: Pirelli, Pasqualottu, Rosario. E nei silenzi, che volevano essere di riflessione ma erano sempre più lunghi, continuava a fissarli. Non era capace di uscire dall’impasse del perdono e della vendetta che si intrecciavano al pensiero della sconfitta e alla rivincita possibile. Magari cambiando compagno di gioco. Il silenzio imbarazzato che ne seguì fu rotto ancora dal suo “Non voglio dilungarmi”, mentre continuava a fissare i suoi compagni, soltanto loro. Infine, dopo una pausa che sembrò eterna e che voleva essere piena di rimandi, quel suo sguardo inquisitore e un po’ vendicativo si era rivolto fisso a quei tre: al compagno di gioco che aveva sbagliato e agli avversari che avevano approfittato della situazione. Pasqualottu non aveva capito niente e stava per addormentarsi; Pirelli si guardava le unghie e Rosario con uno sbuffo pensò che stavolta Don Giuseppe superava il record di durata di un’omelia.
Alla fine il prete tuonò:
“Chi ha detto che gli ultimi saranno i primi?" E indicando il terzetto continuò"se butti coppe quando comanda spade è ovvio… diventi ultimo e devi prendertela solo con te stesso se poi perdi la partita… mannaggia alla miseria, non c’è vendetta, non c’è perdono, comanda spade…”
Don Giuseppe senza volerlo fece una pausa ad effetto che generò nell’assemblea una fragorosa risata liberatoria che mai si era sentita in chiesa. Alcuni allora presero ad applaudire. I bambini più piccoli, a tanto strepito, cominciarono a piangere contemporaneamente, quelli delle elementari ne approfittarono per spintonarsi. Sembrava tutto fuorché una messa. Confuso, Don Giuseppe divenne paonazzo. Picchiò un pugno sulla balaustra di pietra, ottenendo l’effetto contrario a quello sperato. Si fece male e cominciò a torcersi dal dolore. Tutti ora ridevano a crepapelle. Pasqualottu si risvegliò dal suo torpore, Rosario ghignava piano, Pirelli smise di guardarsi le unghie. Le suore si segnavano e bisbigliavano avemarie e pater noster a raffica. Poi il prete urlò un bastaaaaaaaaa assolutamente disumano e disse indicando i suoi compagni di carte “Tu, tu e tu, uscite immediatamente dalla chiesa, siete voi la causa di tutto questo" Poi, sbrigativo e sempre urlando "benedico tutti, la messa è finita, andate in pace, fuori tutti”
Se ne andò in sagrestia come una furia, accarezzandosi la mano dolorante. Quando, sotto al grande crocifisso dove si cambiava, si rese conto della bestialità che stava facendo, ritornò sui suoi passi, mentre la gente già cominciava ad uscire. Aveva capito che non poteva interrompere la messa in quel modo. Forse il crocifisso gli aveva fatto qualche rimprovero, come succedeva a Don Camillo di Guareschi.
“Scusate, scusate, la messa non era ancora finita… continuiamo…”
Tutti tornarono al loro posto, finalmente acquietati e con qualche sbuffo, e Don Giuseppe concluse il rito in tempi davvero record. Quella messa domenicale delle 11 divenne proverbiale nel paese e faceva parte, con molte varianti gustose circa la mimica del prete, dell’antologia dei racconti orali per cui si rideva di più.Però si evitò sempre con cura di narrare con lui nelle vicinanze, così come si fece a meno, di lì in poi, di dire in sua presenza che gli ultimi saranno i primi. E, naturalmente, che la miglior vendetta è il perdono.Antonio Prenna