Era aprile inoltrato e le rondini tracciavano archi tra i cornicioni, il panettone era solo per lui, quello del Natale precedente. Tre volte su quattro, faceva in modo che al primo affondo il cappuccino inondasse il piano in simil porfido del bancone, con schizzi sulla giacca e sui pantaloni, poi venivano le scuse e l’imbarazzo. Avvampava e inciampava nella sua stessa borsa da lavoro che lo aspettava in un angolo, rassegnata d’avere un padrone così goffo, baciava tutti e usciva, dopo tre minuti rientrava col fiatone, aveva dimenticato di pagare, e la borsa. E poi di corsa al lavoro, con una macchia vistosa di caffellatte appiccicoso.
L’ufficio era al sesto piano di una palazzina del centro, aveva finestre ampie da cui si poteva dominare gran parte del quartiere. Non si sa per quale gioco misterioso del destino, svolgeva un compito di discreta responsabilità, probabilmente il suo cervello era molto meno goffo e impacciato di colui che lo portava in giro. La sua stanza era tra le più belle, gli era stata assegnata dopo il trasferimento recente della sede aziendale. I colleghi che per anni avevano sopportato le sue stranezze e i suoi strafalcioni, avevano preso la palla al balzo e si erano aggregati secondo simpatie e affinità, scegliendo stanze più grandi e meno accoglienti. A lui avevano ceduto volentieri l’unica stanza monoposto parquettata, con una splendida vista sulle aiuole giù davanti l’ingresso. Se n’era rallegrato scivolando sul legno incerato di fresco, ma chiusa la porta e accomodatosi sulla comoda poltrona con braccioli si era sentito un po’ isolato messo da parte, non azzeccava mai i tempi giusti, non ne imbroccava una senza combinare danni. Per settimane continuò trafelato a seminare panico tra le donne della pulizia, trascinando dentro con le suole delle scarpe chewingum masticate e altri souvenir raccolti per strada. Un disastro. Dopo qualche tempo, una mattina di maggio, entrò in ufficio disseminando lungo il corridoio una cacca di cane presa fresca fresca sul marciapiedi. Chiuse la porta della stanza, aprì la finestra e respirò una sana boccata d’aria e benzene. Il sole lo salutò e riprese il proprio giro nel cielo limpido. Anche lui accennò un saluto e si lasciò cadere sulle aiuole giù, davanti l’ingresso. Rimase a terra per qualche minuto, poi il portiere si accorse del cadavere e diede l’allarme. Conclusione di una vita disastrosa, fino all'ultimo. Non poteva immaginare che proprio l’indomani mattina il bus LineaRossa, sbandando alla fermata, lo avrebbe preso di petto, uccidendolo.
Raimondo Quagliana