Sez. In viaggioSvolgimentoLondra, ma in inverno inoltrato - solo brughiere frustate dal vento, prosodie di bufere ad agitare querce, coltri di nebbia a dividere i passanti. I miei mi avrebbero mandata altrove, in America ma da alcuni parenti, a Madrid da un’amica di vecchia data: se viaggio deve essere, voglio andare da sola, senza tutele o protezioni. Sola - ufficialmente ragazza alla pari di una famigliola con due bambini, così dissi ma senza troppa convinzione. E Londra fu, tra l’odore cordite di vita metropolitana, gli U2 ascoltati nei magazzini Virgin, gli artisti di strada a cantare standard del country o a scimmiottare clienti di fast food agitando polli di plastica. Una stanza la presi dietro Waterloo station, nella pensione di Steve uomo canuto dal ventre sporgente, un tipo un po’ cerbero un po’ bonaccione e decaduto quanto la sala del suo ristorante che ai tempi di Marianne Faithfull serviva fish’n’chips kebab birra - restavano tavoli a mo’ di lapidi in formica vegliati da sedie che tali ve n’erano nella mia scuola media; alle pareti altre foto di Steve o paesaggi seppiati; appresso a lui, come un cagnetto o un odore acre, una donna sparuta dal volto grinzoso coperto a zone da capelli sfibrati, vestaglietta fiorata tirata sul pigiama stinto: a lei il compito di portarmi in stanza. Era da psicofarmaci la sua lentezza mentre arrancava tra corridoi stretti e scale scomode rivestite di moquette mal appuntata - l’edificio cresciuto in momenti diversi si snodava su più livelli – e quando aprì la porta della mia stanza (un sottotetto con due finestre a scrutare le tegole dell’isolato di fronte - un occhio alle antenne e uno ai dirimpettai) sentii di sfogliare un romanzo a me noto, riconobbi la camera dei ragazzi di Lady Ramsey a St. Ives, lì si accumulavano mazze, pantaloni da cricket, cappelli di paglia, calamai, barattoli di vernice, scarabei e crani di uccellini. Per la vecchia era quello che era: una topaia. (Chiuse la porta scagliando parole comprensibili solo a lei che rivelò una voce stridula da sorella fatale.) Poggiai lo zaino su una poltroncina di peluche amaranto, di un tavolo vicino ad una finestra feci il mio scrittoio, sedetti e scrissi Io sarò Londra - uscii poco dopo per andare a caccia di ragguagli toponomastici, annotai istruzioni per raggiungere Camden Town, slogan di musical dati a West End, gli ingredienti per una torta di carote ricoperta di margarina.
E camminavo a bocca aperta, le creste dei punk, i negozi di tartan, i pub e le insegne dipinte a mano, i negozietti di abiti nuovi e quelli di abiti usati, le bancarelle di frutta a Soho, le pasticcerie dei cinesi e le loro frolle al melone bianco, una panchina nel parco e immaginai pianure attraversate da stradicciole dall’asfalto liso e io a cavallo o su una vecchia Aston Martin a guidare senza sentirmi inseguita, attonita mentre i verdi vescica della vegetazione attraversavano fiochi il parabrezza offuscato dalla pioggerellina. Ne parlai con Serge che conobbi in libreria, pure lui in cerca di suggestioni, di atmosfere, con una gran voglia di perdersi in un refrain dei Beatles mentre in mano stringi un curry take-away, un occhio ai bocconi di pollo ed uno ai merletti o alle calcomanie della finestra di fronte. Stavamo accanto e lui leggeva sottovoce qualcosa che riconobbi, era una poesia di Wordsworth, lei svoltò per strade mai calpestate. Sovrapposi la mia voce alla sua, ne leggemmo un’altra, un’altra ancora, e poi per strada, in piazza, al parco, immersi in tramonti-Turner sul lungofiume di chiatte attraccate.
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