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Tema: Maricàlide e il gioco delle cinque conchiglie

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Tema: Maricàlide e il gioco delle cinque conchiglie
Chi aveva la fortuna di superare l’anello di fumi che a molte leghe dalla costa cingeva l’isola di Maricálide, si stupiva di un mare mai freddo eppure cristallino. Ai più non appariva un disegno di città, ma una torre di paesaggi che svettava su quell’acqua limpida, sopra abissi dove guizzavano a volte pesci a volte bambini. Avvicinandosi alla costa un odore forte di macchia avvolgeva i viaggiatori che riconoscevano dapprima l’elicriso e il cisto e poi, con stupore, il basilico e la cedrina. Un certo smarrimento coglieva gli approdati: il tramonto dardeggiante che avevano davanti agli occhi conviveva con l’alba delicata che era alle loro spalle. Il giorno si poteva consumare, o riaprire, semplicemente voltandosi. All’infinito.Non con scale ma con uno sconfinato falso piano, che a percorrerlo talvolta una sola vita non bastava, si saliva al paesaggio superiore, dove colline dolci e distese lasciavano posto all’improvviso a un lago. Sulle sue rive coppie di umani e di animali si amavano in una verzura fitta e sconosciuta, che era più morbida del più morbido dei filati, dove si mescolavano l’odore amaro dei feromoni e il profumo dolce dei gelsomini. La sera si accendevano fuochi: creavano geometrie di percorsi per i giochi di cinguettanti bambini, che inseguendosi staccavano dagli alberi frutti simili a coloratissimi agrumi sconosciuti ai viandanti.
Dal lato sud del lago si partivano delle rapide che, preso lo slancio dopo repentine e tonanti cascate, s’impennavano fino al cielo, e pareva ai viaggiatori di sentire altissimi nitriti. E in quel cielo trascorrevano infinite albe di sole e notti di luna prima che le rapide deponessero i viaggiatori, con le barbe ormai bianche e le loro compagne sotto braccio, su una spiaggia di zafferano lassù in cima a quella torre di paesaggi. E loro, increduli, a chiedersi se erano arrivati nell’Eden originario o in una civiltà dalla tecnologia così sofisticata che tutto disponeva senza mostrare alcuna forma visibile. E mentre si affannavano a capire che strana struttura avesse quell’isola e quali leggi della fisica la sorreggessero, videro la ragazza, poco più che bambina, venirgli incontro. E le donne si riconobbero in lei e gli uomini invocarono il suo nome: Rosita! Sì, Rosita della città antica di Maricálide sulle cui mura di ponente, con difficoltà, se ne poteva leggere il nome: Penta Kossulia. E lei invitò quegli uomini inteneriti a stendersi, uno alla volta, sulla sabbia. Con gesti leggerissimi poi disponeva cinque conchiglie su di loro: “Due conchiglie sugli occhi, una sulla bocca, una sul cuore, una dove vuoi…”.E ciascuno tornava adolescente e al posto di Rosita c’era la loro compagna, con gli occhi di nuovo lucidi di maliziosa giovinezza, a dare inizio al gioco. Bisognava spostare di posto le conchiglie tra loro senza mai toccarle con le mani, solo con la forza del respiro. E dei sospiri. E molti di coloro, rapiti dall’antico rito, sarebbero tornati al lago degli amori. Ma a Maricálide non è mai dato di percorrere a ritroso lo stesso cammino. Davanti c’era quel mare, che di topazi e smeraldi aveva colorato i suoi fondali e uno sciame di scaglie di rame la risacca sollevava. Che fosse lo stesso mare che li aveva portati fino a lì o uno diverso, non è dato di sapere. Non che i viaggiatori non lo avessero saputo, ma durante il gioco delle cinque conchiglie, tra respiri e sospiri, ne giurarono il segreto.

Marco Stancati


[Si ricompone qui il mosaico di ventiquattro cinguettii con i quali ho raccontato, su Twitter,Maricálide nell’ambito di #invisibili/me]

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