Tema: Pesca alla cernia

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Guarda questa cernia! Farebbe un figurone sulla copertina del tuo giornale cretino! – Germano dedito al lavaggio delle attrezzature dopo la battuta di pesca subacquea; prima la muta, le bombole, il fucile, e ancora la muta e ancora il fucile e le bombole – tanta acqua, il sale erode la fiocina, mangia il ferro, secca le guaine –; alzava il tubo e si docciava, era bello Germano, davvero ben fatto, la pelle chiara sotto il solediventava marrone ambrato, i capelli pannocchia, gli occhi più azzurri – lo guardavo di traverso e lui a spararsi pose; l’acqua intanto scorreva e sotto il portone ne usciva tanta e tanta finiva per strada, sotto il marciapiede, lungo la discesa sino al primo tombino a perdersi -; enorme la cernia, maestosa seppure appesa ad un uncino ancorato alle sbarre – questa è una cernia bruna di 15 chili e passa, guardale i denti, se decide di morderti ti strappa la muta, diceva Germano tra una innaffiata ed un’altra – maestosa e da rivendere ai ristoranti del lungomare, la pagano bene, che lei non è fiera da superficie, bisogna scendere giù, anche venti metri, con cinque chili di piombo alla cintura, luce ne arriva poco e niente, lì lei (dietro un ciuffo di posidonie, una ladra o un’assassina) ti scruta e poi scappa nella tana: in quel momento devi essere più veloce, malefica che se avvicini un dito alla sua boccaccia lo mutila, una murena– che Germano raccontava questa cosa e simulava un moncherino –, la devi colpire dritta nel triangolo accanto la pinna pettorale, un colpo secco, e se non muore un altro colpo, un altro ancora, o la devi beccare tra gli occhi – sbang! -, solo allora resta fulminata; la sfida dell’uomo contro il mare, come il vecchiaccio del romanzo, a venti metri e passa di profondità tu e lei davanti, alle spalle la scogliera scoscesa di cavità e buchi dove la malefica sta ferma e aspetta per fotterti, che tu te ne vada a mani vuote e ridere, ma io so come si fa, ho la mia tecnica, mi pianto davanti a lei con le bombole, prendo il boccaglio e le sparo aria addosso, lei fa mezzo capolino, io la guardo negli occhi, ci guardiamo e capisce tutto, io le sparo, l’arpione taglia l’acqua, l’arpione sa dove andare, dritto, sulla fronte – mi raccontava queste cose e con un dito si premeva tra le sopracciglia (io a sentirmi una fiocina tra le viscere).
Germano avrebbe portato la sua cernia bruna ad un ristorante, giornata ricca, non che avesse bisogno di quei soldi per arrotondare – era foraggiato dal padre, lo ricordo mentre tirava fuori il portafoglio, ma pure dallo zio paterno, quello senza figli che a potere sceglierne uno lo avrebbe voluto uguale, furbo e piacione, e che dire degli spiccioli delle zie sorelle di sua madre morta, ma questi erano pochi, strappati ai ricavi di piccoli lavoretti di ricamo. I cani del giardino guardavano il pesce appeso e avrebbero preteso la loro parte, puntavano il naso e annusavano l’odore pungente un po’ alga un po’ putrefazione buona che sa di sarda salata; i cani venivano allontanati con un rimprovero – passaeddà, disgraziati! – mentre una spruzzata d’acqua si allungava verso di loro; scappavano con il culo basso e la coda tra le gambe, poi si facevano coraggio e tornavano, il pesce esalava, il richiamo intenso.
Io stavo seduta nel mio giardino che era attaccato al suo, solo una linea di barre di ferro tra me e lui che distavamo sei o sette metri, comoda sulla sdraio in tela, il TV Sorrisi e canzoni o un libro di narrativa in mano, un occhio al giornale, l’altro a Germano – al posto suo non ci avrei messo più di dieci minuti a pulire quelle quattro cose –, lo guardavo affascinata dal rituale dell’abluzione, lento nella ripetizione a dilatare il tempo, incredibile nella sua cifra, ieratico per la sua flemma; dopotutto a casa avevo nulla da fare.
Uno di quei pomeriggi di sciacqui e risciacqui di muta e attrezzature, approfittando di una pausa di Germano che era andato in bagno, suo fratello si avvicinò alla ringhiera e mi chiamò – non era timido, poteva essere logorroico se l’argomento gli interessava, piuttosto preferiva portare avanti i suoi travagli - io stavo sbadigliando sulla sdraio. La vuoi sapere una cosa? le cernie sono pesci curiosi – si guardava alle spalle per paura che due dita potessero afferrarlo per un orecchio e trascinarlo a calci in culo -, e lo sai cosa fanno? quando vedono un estraneo escono dalle tane e si avvicinano per fare amicizia, gli piace giocare: basta che fai finta che sei buono, gli puoi portare pure il cibo che loro se lo mangiano: se allunghi una mano ti danno i bacetti, come i capretti. Non ci vuole niente ad ammazzarle.E tu come le sai queste cose? gli dissi mentre già si stava allontanando. Le so, mi rispose, c’ho domandato a uno che pesca.Giorgio D'Amato

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