Magazine Diario personale
Sì perché vedi, maestra, la letteratura è una cosa troppo importante per essere lasciata agli scrittori. Loro non sanno quello che fanno, ma non per questo vanno perdonati. L'autografo è la moderna moneta da apporre sugli occhi del romanzo ormai già morto, nel momento stesso in cui è considerato una “proprietà intellettuale” (uno degli ossimori meglio riusciti e più terrificanti della storia). Il nome dell'autore è spesso scritto a caratteri più grandi rispetto al titolo del libro, ed è il suo ego che viene venduto, svenduto, inventato, vantato, mica il contenuto, che entra in fase di decomposizione già dopo che il povero stolto ha cesellato l'ultima lettera. Il lettore consuma nel momento stesso in cui vede, e acquista poiché desidera in maniera indotta. Leggere il nome Wilbur Smith in vetrina è già aver letto il romanzo. Osservare una pila di Stephen King significa aver già bramato, ingurgitato, digerito e metabolizzato il romanzo stesso, e il fatto di leggerlo successivamente è solo un accidente. Comprare Dan Brown e postarlo su Twitter, Instagram e Facebook, ed ecco che il libro è già letto, senza essere letto. E la storia non ha importanza, il contenuto è ininfluente, conta soltanto il necrologio della copertina.
L'arte è una cosa troppo bella per essere affidata ai nomi, cara maestra, non credi? Non ci rendiamo mai conto abbastanza (o forse non vogliamo ammetterlo) di come sia il racconto a scrivere il proprio autore, il quadro a dipingere il suo pittore, la musica a suonare il compositore. L'umiltà di colui che si fa portavoce di un'idea dovrebbe aver sempre presente che è quella stessa idea a comandare la sua mano, il suo braccio, il cervello, o anche solo la bocca che la pronuncia. Non esiste autore, esiste solo il mezzo attraverso cui il pensiero si fa voce, parola, immagine o suono. “I nostri nulla differiscono di poco; è banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi, e io il loro estensore”. Quest'umile impresa di posizione fu scritta all'inizio di “Fervore di Buenos Aires”, forse una delle più grandi raccolte poetiche del Novecento, da Jorge Luis Borges, all'età di diciannove anni. Il significato è esattamente quello che si legge: non chiamarmi autore, io qui non c'entro nulla. Sono le parole ad avermi raccontato. Qui si va al di là della semplice riscoperta della Musa. Qui siamo di fronte alla scomparsa dei nomi e al trionfo dell'idea, che nel mondo ha così poca voce da non riuscire, oggigiorno, ad avere voce in capitolo. E perciò, la sua voce capitola, sotto la forza commerciale dell'autore, questo tiranno del nulla, padrone solo del suo miserevole autocompiacimento. Per questo, la libreria è un cimitero, e i libri sono tombe, lapidi dietro cui si cela il corpo della vittima, cioè il pensiero. Cara maestra, sogno una libreria di volumi tutti identici, dalle copertine bianche, prive del nome degli autori, riportanti solo il titolo e, all'interno del loro innocente candore, una storia che vive, da scoprire per ciò che essa è: una storia! Non più la proprietà di un qualche ometto frustrato che non sa trovare altro hobby se non quello di imprigionare la cosa più libera che esiste al mondo: l'arte. E così, cara maestra, io stesso non esisto, dentro le parole, e cado nella tentazione di compiacermi, per queste idee espresse, perché il mio ego è talmente furbo da mandarmi in crisi per le cose che sto scrivendo, che anzi mi stanno scrivendo. Ma mi sto combattendo con ogni forza, perché noi altro non siamo se non la bocca attraverso cui il pensiero ci racconta, noi siamo soltanto le mani utilizzate dalla letteratura per scriverci, narrarci e prenderci in giro. Io, nella guerra tra la funerea presenza dell'autore e la vivificante spontaneità delle idee, ho preso la mia posizione, e da essa mi lascio raccontare. Fino a che non supereremo la grande menzogna dello scrittore, avremo solo il supplizio delle storie di fronte a noi, e quella miseria che possiamo guadagnare da questi stupidi rovesci d'autore. Riccardo Dal Ferro
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