Tema: Se una notte d'inverno un narratore

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L’ultimo fulmine che Pagui aveva visto, risaliva a cent’anni prima. Non aveva la barba, non aveva la neve in testa e non gli facevano ancora fare Babbo Natale il venticinque di dicembre. A dodici anni tutto è fantastico e Pagui era uno di quei bambini che della fantasia non aveva paura. Aspettava costantemente i temporali per star sveglio tutta la notte, affacciato alla finestra per sentirne il fresco, il profumo, il bagliore. Certo, il giorno dopo a scuola non era fra i più svegli, ma a lui non importava. Non gli importava di cosa accadesse durante il giorno; era fondamentale non perdersi un temporale. Era felice di ogni tuono: la colossale mandria di bufali che correva scatenata su, nel cielo nero come i suoi piedi e che faceva tutto quel gran baccano. Non vedeva l’ora che l’estate tornasse a casa, portandosi via ombrelloni e altri ammennicoli da spiaggia. Candido come la brina, spettrale come un fantasma, si teneva pronto per le prime piogge dando un’occhiata al cielo prima di andare a letto, oppure subito dopo gli altri. E così, mentre tutti gli altri dormivano sonni tranquilli, lui spalancava la finestrella di legno e si sporgeva poggiando i piedi sulle tegole rosse e calde da un giorno intero. Il primo settembre la pioggia non era ancora arrivata, ma Pagui non ci fece tanto caso, in fondo poteva capitare qualche giorno di ritardo, col traffico sulla Salerno-Reggio Calabria, beh, vorrei vedere. Si mise un dito in bocca e subito dopo lo mostrò al vento per farsi dare informazioni. Ma niente, era secco, tutto secco. Non tirava un filo di vento nemmeno a soffiarlo dalla bocca. Pagui, intristito rientrò in camera sua e si mise a dormire svogliatamente.
Passavano i giorni, e della pioggia ancora nessuna goccia. Pagui, accortosi di un filo di vento, scrisse veloce su un biglietto “DOVE SEI FINITA?” e lo lanciò dalla finestra. Ma nessuna risposta si accorse della sua domanda. Abbassò lo sguardo e si chiese come mai da quelle parti non usassero i telefoni, come mai non ci fossero modi per comunicare. “E la radio? Dovrebbero dirlo alla radio se la pioggia non passa” si chiese. Gli venne un’idea. Aprì la finestra, si sedette come al solito e mise le mani alla bocca, fece un bel respiro profondo e poi urlò: «Se proprio non volevi la mia compagnia, che ti costava dirmelo? Non avrei aspettato così tanto tempo! Dove sei finita?! Rispondi!» Niente rispose se non l’eco delle sue parole. Scese dalla finestra e sbatte con tutta la sua forza le persiane «Basta, non aprirò mai più quella finestra, neanche se facessero quaranta gradi! Neanche se non riuscissi a mangiare il gelato». Con le lacrime agli occhi si stese sul letto, si coprì fin su la testa e stette lì, comunque ad aspettare. Perché non poteva, la pioggia, non tornare e lui lo sapeva già, ma era troppo testardo per darsi pace e capire. In fondo era un bambino.

Quella sera ebbe soltanto la voglia di scoprirsi. Finché un rumore enorme, come di duemila macchine da corsa che accelerano insieme davanti a un microfono. Un’enorme risata si spinse via dalla bocca di Pagui, che si spogliò dalle coperte neanche avesse vinto la Coppa UEFA, e spalancò le finestre di legno, facendole battere sul muro di casa. Gli occhi chiusi, il naso all’insù, lentamente usci dalla finestra. Si fece serio, nel caso in cui si fosse trattato di una burla di cattivo gusto, o magari era soltanto suo padre che guardava la Formula1. Ma no, era proprio lei, la terra bagnata ad infangargli il naso. L’umidità che si tira su dalle tegole, abbracciata all’aria fresca. Le bianche figure che camminano tra le nuvole, titani del cielo e colossi accecanti. Il rumore dei mille bisonti su nel cielo, le correnti imbestialite, scalpitanti di corride. E l’acqua, lei, pura e trasparente, pronta a bagnare capelli, cappelli e panni appena stesi.

Passarono giorni, mesi, stagioni. Gli anni volavano come le foglie dagli alberi. Le industrie crescevano, la gente costruiva, distruggeva e ricostruiva. Le barche erano dei pescatori, le navi dei lavoratori e le crociere dei padroni. Il macellaio ingrassava, i genitori mancavano, nuove generazioni prendevano il largo sulla terra. Chi si conciava di fiori e chi si vestiva di nero. L’Italia vinse i mondiali, la Juve lo scudetto, il Milan la Champions e l’Inter la Coppa del Nonno, una ciascuno che tanto ce n’erano. Pagui compì centododici anni e la barba bianca ormai gli strisciava sulla torta che gli avevano preparato quei quattro amici che rimanevano. Finita la festa tutti andarono via e lui restò solo. Si tolse le scarpe e le calze. Prese la vestaglia e la mise sulle coperte, aprì la finestra e aspettò il concerto. Tuoni e fulmini danzarono in cielo un tango argentino. I pini battevano le ombre in plauso ai danzatori e la pioggia, diede un bacio sulla fronte a Pagui. Lui fece un sorriso, si toccò la Testa e ascoltò: «Pagui, dopo tutto questo tempo?» e lui rispose «Sempre». Allora vieni con me.

Il giorno dopo trovarono il letto vuoto ed i vestiti posati sulla sedia, compresi gli occhiali. Si dice che Pagui fosse finalmente riuscito a sposare la pioggia, come diceva da anni. Altri continuano a dargli del matto.

SIDTutto è relativo, anche il reale significato di queste parole.

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