Svolgimento
“Non c’è nulla di trascendentale”. Tra-scen-den-ta-le. Cinque sillabe scandite da labbra in apparenza sazie di ovvietà. I miei occhi si alzano di scatto dal piatto che coi suoi odori e sapori cerca di tenere impegnata la mia mente alla ricerca di una conferma a ciò che le mie orecchie hanno udito. Da sempre la vista è considerata la regina dei sensi, perché è ad essa che si affida l’orientamento e la conoscenza umana del mondo. Lo stesso termine idea deriva dalla radice greca vid- che significa vedere: gli occhi sono infatti lo strumento con cui l’intelletto umano può attingere l’essenza delle cose, sono la via d’accesso alla conoscenza. Ma questa volta la sensazione uditiva del ‘trascendentale’ non riceve alcuna conferma dai miei occhi, gettati in confusione dalla visione del tipo tatuato, impomatato, inanellato e dal petto glabro, che la camicia bianca, aperta fino al quarto bottone, lascia vedere. I rischi della conoscenza nell’era mediatica, direbbe qualcuno. Vorrei tanto che la mia mente tornasse a concentrarsi sul piatto, sintomo dell’indifferenza che si traveste di necessaria sopravvivenza quando chi ti sta intorno trascorre l’intera sua giornata ad inseguire un talent show. Hegel sosteneva che è una fatica pensare, nella nostra società è diventato addirittura un optional, un effetto collaterale, spesso dannoso, dell’agire. Il cogito ergo sum non è più un’evidenza la cui verità non ha bisogno di essere dimostrata perché è una tendenza innata della ragione, perché se tutti gli uomini pensano allora pensare è umano: nella nostra società le premesse sono forse le stesse? Chi pensa, e pensando muove i fili del mondo, ha come fine sempre e solo il bene dell’umanità? È così comodo erigere altri a nostri tutori affinché questi pensino per noi. Il danno è che non ci chiediamo se siamo noi i reali artefici delle nostre guide spirituali. Ogni giorno siamo bombardati da una quantità di informazioni che è di gran lunga superiore a quella che siamo in grado di assimilare, ma di una qualità che non a torto i sociologi definiscono allo stesso livello della spazzatura.
Ecco la vera morte di Kant, sulle labbra di un protagonista di talent show, simbolo della nuova cultura giovanile. Ma quale cultura? È ancora lecito continuare a chiamarla così? Nemmeno i nomi rispecchiano più l’essenza della cose, continuiamo ad usarli in virtù di una sorta di principio di veneranda autorità, ma il significato che veicolano è solo il riflesso opaco del tempo. E allora a cosa vale domandarsi perché quel tizio ha chiamato in causa il trascendentale se molto probabilmente nemmeno sa chi è Kant? Di contro saprà orientarsi meglio e troverà il suo posto in questa realtà che anch’io vivo, ma nella quale non trovo posto se non attorno ad un tavolo e davanti un piatto che cerca di tenere occupata la mia mente.
Eliana Macrì