Tema: Una notte

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Le quattro del mattino. Le persiane della piccola finestra mostravano un cielo pulito, carente di stelle e nuvole; eppure, seduto su quel marmo di burro, morto di caldo e anche d’insonnia, S. stava a guardare pensando alla disastrante giornata che, per lui, sarebbe cominciata da lì a poco. Le due fotografie in bianco e nero appese al muro non davano spiegazioni plausibili al crampo che gli violenta lo stomaco. Alzò gli occhi sudati al cielo, tentando invano di fermare le sinapsi e distogliere il pensiero. “Ormai è fatta.” pensò S. tra sé e sé toccandosi i capelli, “Non resta che assecondare il degradarsi di queste speranze. Mi chiedo cosa stesse fissando”. La mano ricadde stanca sulle ginocchia scoperte da un pantaloncino azzurro. La paura è più forte di qualsiasi convinzione, infatti, la convinzione, alla fine si perde nel baratro del malessere: le quattro del mattino, il caldo soffocante e la cruda resa.

Il cambiamento è una lenta conquista in cui il sentimento dominante ti piomba addosso come un regionale che si è perso, soprattutto quando a cambiare è una persona come S. Ricercava le cause del suo dolore tra le esperienze e le indifferenze che lo avevano colpito, tra quanti Padre Nostro aveva cantato e quante volte, invece, aveva bestemmiato in vita sua. Era turbato da se stesso. Pensava d’esser matto. Si credeva un paradosso, un ibrido, uno che provava rancore e più d’una volta si era lasciato prendere la mano dalla convinzione delle sue immaginazioni, espellendo il reflusso di rabbia che si era successivamente generato nel suo stomaco, colpendo chi gli stava intorno, contribuendo all’ennesima delusione e perdita di stima. Non si amava più. Il gatto che leccava le sue ferite era lui stesso. 


Decise così di starsene in silenzio. I gomiti poco abbronzati aiutarono il corpo a stendersi sul copriletto blu dopo essere sceso dal davanzale. Le gambe si incrociarono e finalmente la testa toccò la federa su cui era disegnata una faccina stilizzata e sorridente dalle gote rosse. Uno spettacolo strano per uno che, in quel momento, non aveva espressione alcuna. “Facendo due conti: da piccolo sono caduto dal seggiolone e no, non avevo un bernoccolo, io avevo un albero di frutti sulla fronte. Mamma dice che quando sono nato ero affamato e che non riusciva a tenermi al seno perché mordevo. Papà una volta è caduto per terra, a due o tre centimetri da uno spigolo di legno molto tagliente e io, per lo spavento, ho battuto il mignolo sul piede del mobile antico di nonna. Sono un paradosso. Solo e in compagnia riesco a vedere e non vedere le mille espressioni che mutano il mio volto, senza muovere un muscolo. Ho paura. La mia vita è sfigata, perché ho un lavoro, ho una ragazza, ho degli hobby, i soldi per uscire a bere una birra, ma allo stesso tempo non ho nessuna di queste cose. È frustrante.” pensò. Una risata mise in risalto gli occhi scavati e la barba incolta. Il caldo e le smanie ripresero il sopravvento. Schiena al muro. Il primo piano in bianco e nero di Nietzsche lo fissava col suo solito disgusto. “Sono soltanto un uomo e, visto che senza crudeltà non v’è festa, mi viene in mente che il vino che servono non sia abbastanza consolante e di compagnia, o peggio, che non stia risolvendo proprio un bel niente.” Si girò per evitarne lo sguardo e infastidito mise una mano sugli occhi. Il medio, nervoso, fece capolino sulla pellicina morsicata dell’indice e poi sul polpastrello del pollice, con la grazia di chi non ha dubbi su cosa vuol mordere. Nuovamente il bianco e nero s’era fatto vivo e tornando a guardare le foto il ghigno si tramutò in sorriso. “Hai un sorriso grondante di soddisfazione,” pensò, abbassando gli occhi e continuando a sorridere, “ed io avrei voluto dire al tuo viso condito d’allori “tu sei il mio orgoglio!””. La solitudine spense lo Stregatto e il tictac dell’orologio. Ogni briciolo di luce si dileguò lasciando spazio all’oscurità. Nessuna sagoma, sul letto, nessuna notte da buttare, nessun paesaggio da ammirare. “Forse ci si sente così dopo la morte. Non senti più nulla. Resta tutto fermo nella tua mente e non senti più nulla”. Un sentimento di terrore e nostalgia lo spinse a tirare via il lenzuolo dalla testa. Qualche ora dopo le mattonelle rosa erano ancora umide. Il caldo umido lasciava il posto al vento fresco dell’alba trapelante dalle persiane. S. si alzò dal letto e mise sul giradischi Without you I’m nothing dei Placebo, raccolse un paio di boxer e si diresse verso il bagno facendo una sosta in cucina per accendere la macchinetta del caffé. Si grattò la testa ed entrò in doccia.Antonio Siddiolo

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