Una volta quella scala era bianco vecchio e a casa stavano facendo dei lavori di ristrutturazione. C’era un manicomio di muratori in casa. Gente che conoscevo perché padrino o cugino di tizio, e gente che avevano di certo preso ad un circo, perché io non sapevo mangiare il cibo in quel modo e ignoravo come potessero assumere forme così strane alcune bocche ruminanti. Successe un pandemonio: genitori e relativi fratelli decisero di uscire per una passeggiata in macchina, vicino al mare. Io fui lasciato a casa, unico figlio e unico nipote, annoiato a morte. Nonna lavorava a macchina e mi offriva gelati; nonno fumava le sue sigarette “MEN” secche e lunghe, nel magnifico pacco bianco/nero che presagiva di morte. Mi misi sulla bicicletta a girare per il giardino. La caccia alle lucertole non aveva stagioni, quindi ne approfittai ed andai in giro ad accopparle una per una o, almeno, quella era l’idea. Infatti non vidi uno scalino e urtandolo in velocità caddi dalla bici dritto su una mattonella. Mi diedero due punti e il dottore, bastardo, disse che non mi avrebbe fatto male per niente. In più mi sgridarono perché non mi si poteva lasciar da solo per una volta. Cornuto e mazzìato.
Nel frattempo in paese le case aumentavano, i vicini cambiavano e altri invecchiavano. I miei genitori entravano negli -anta, cambiavano le bottiglie della Coca-Cola più delle mie scarpe strappate e rigorosamente comprate al mercato. Risultava introvabile la fantomatica gazzosa Partanna, quella che quando la univi alla birra ti dava le forze per reggere un campionato di calcio intero e quando la bevevi “schietta” ti faceva fare dei ruttoni che neanche Barney Gumble. Moriva il gatto di mia zia e lo sotterravamo sotto un quadretto di pietre al lato destro dell’orto di mio nonno, sotto un ulivo pieno di vita. Cadevano le olive, cadevo ogni tanto nella canaletta che portava l’acqua alle piante e mi sporcavo e mi dicevano che continuando così avrei preso il tetano, anche se sotto sotto ridevano. Lavavo mille maglie dentro quella stessa acqua e mangiavo arance e mandarini in quantità industriale. Mio nonno passava da Tele+ a Sky e spostava i mobili in casa come fossero costruzioni Lego. Io mi prendevo una cotta qui e una lì, forse perché volevo somigliare a mio zio che si era appena fidanzato con sua moglie e quindi stavo al telefono un casino di tempo. Mio nonno smise di cambiare canale, decise di trasferirsi e non lo vedemmo più, così, di punto in bianco, dopo un bicchiere d’acqua sudata. Mia nonna ingrassava, dimagriva e ogni tanto lo cercava, altre volte chiedeva, voltata verso il testale del letto, la domanda più plausibile: “perché?”. Alla fine si rispondeva da sola, con un silenzio che non riuscivi a sopportare.
Le riunioni familiari non mancavano, infatti un sacco di attori e attrici presero parte alle riprese. Un paio di anni dopo la morte di mio nonno, per un natale, si decise di cenare insieme. Strette di mano, coraggio e impertinenza a condire gli occhi luccicanti dei bambini che non si vedevano da anni in queste condizioni. Io scoprivo i CCCP e restavo fedele alla linea, tanto fedele da camminare sempre su quella gialla in stazione, noncurante dei maniglioni di sicurezza dei treni che potevano, da un momento all’altro, investirmi. I miei partirono una volta per Bologna e un’altra per Pisa. Dopo il viaggio di nozze dell’88 queste furono le uniche due mete a cui approdarono i miei, una volta per curare mio fratello e l’altra per gonfiare mio padre che si era sgonfiato un po’ troppo. Gli spararono in bocca per gonfiarlo, precisamente una pillola a base di bromuro per sconfiggere la tiroide e riportarlo allo stato di uomo in salute. Dopo il viaggio stette 66 giorni senza abbracciare, toccare, baciare nessuno. In isolamento. Poi guarì e si riprese, fortunatamente e velocemente. A scuola si parlava sempre della crisi, però si studiava comunque l’economia di un tempo perché servivano i metodi di Keynes e Marshall per aggiustare l’ingranaggio che si era rotto. Quindi mi diplomavo e diventavo “Antonino Siddiolo, ragioniere programmatore”. Che figata che sembrava, dicendolo.
La scala a chiocciola, oggi, la faccio ogni giorno prima di andare a lavorare. La faccio quotidianamente per risalire a casa prima di spogliarmi, farmi una doccia e cenare, oppure quando torno sfinito e solo da una serata con gli amici. Lascio la mano dei miei, lascio i litigi ai loro proprietari, cresco un po’ che fa bene, parto, mi lamento come i vecchi, ascolto i vinili, amo nel modo corretto. «Mamma, mi serve la maglia bianca con il teschio-albero», dissi a mia madre. «Quando dici tu vedi di crescere un po’, non dico troppo, solo un po’». Oggi la scala a chiocciola è verde e arrugginita, ha un ferro della decorazione piegato all’interno e ogni tanto mi prendo ancora paura, perché penso mi possa crollare sotto i piedi.
SID