16 ottobre 2015 di Titti De Simeis
Titti De Simeis: Sfumature d’ulivo
Chi non è nato qui, tra queste terre accaldate e rosse di fatica, non può sapere la desolazione che ci asciuga gli occhi. Impotente, come ogni sguardo indifeso e disperato che si posi sui nostri campi, infiniti e devitalizzati dell’ombra materna di alberi che non sono più. Ci sentiamo spezzati, fra zolle asfittiche d’acqua e radici senza vita, lasciate alla luce accecante di promesse fallite, ingoiate e rinnegate. Siamo in piedi, di fronte all’immensità di tronchi abbattuti, riversi, arresi ad una ruspa assassina dopo aver resistito a secoli di vita, venti impietosi, siccità boccheggianti, curvi di rami verdi e riflessi d’olio.
Ci è stato fatto, davvero tanto, tanto male. Non è un modo di dire, non lo è per niente. Se davanti ad una spianata di ulivi decimati viene, solo, da piangere, non lo è, credetemi. Si fa fatica a riprendere fiato, a mitigare il gusto del vuoto, la rabbia ormai inutile e orfana di ogni speranza, mentre il passato ci giunge in soccorso a riempire i ritratti sfuocati di un Salento felice. Le stradine tra i campi non son cambiate, sono sempre le stesse, piccole e tortuose, sterrate e percorse da rivoli d’erba selvatica, di fiori gialli e lilla. Costeggiate da muretti a secco antichi e muschiati, case segrete di ragni e lucertole. Ci si guarda intorno. Le campagne son depredate. Rimane ben poco. L’odore pungente del legno ferito, ancora verde e bagnato di pioggia lascia il segno, ovunque. Il vento fa il resto, in folate di nostalgia. Una storia dietro l’altra: si avvicendano piccoli stralci di ciò che, con quegli alberi, si è immolato per sempre. Un terremoto in macerie di ricordi.
L’autunno rincara il peso del distacco: stagione di vita e storie tra ulivi in festa, pronti alla raccolta. Mattinate d’alba e voci di donne, canti lontani e panieri, setacci e frantoi in attesa. Bambini tra il lavoro dei grandi, sugli alberi, a nascondersi e cercare il mare all’orizzonte. Le altre stagioni sanno di giochi, in bicicletta o a nascondino nei tronchi larghi, di spazio e di baci. Scappatelle di abbracci rubati tra i rami complici. Il caldo da alla sera respiro e intorno a una chitarra son risate e stelle. Così il Salento contadino lascia il posto al silenzio sterminato, come questi campi tristi, di una terra madre avvilita e lacerata da paura e abbandono. E domani sarà peggio. Poco conta il perché, poco cambia conoscerlo. Cosa ci sia dietro non importa. Ormai, non più.
C’é stato il tempo delle domande e delle porte sbarrate, degli scioperi in piazza e degli striscioni alle fineste. Delle interviste, delle occupazioni, dello scandalo urlato al mondo, a mille voci. C’è stato questo e molto ancora. Quanti si sono avvicinati a quei rami ingialliti, seccati, avvelenati da un’aria di imbroglio per difenderne la salute secolare, proverbiale, indubbia in ogni tempo. Non in questo, non nel nostro. Ci hanno detto che non è più il tempo della loro salute, non è più nostro compito amarli. Ma noi non ci abbiamo creduto, mai. Abbiamo rubato il coraggio per farne trincea, abbiamo venduto preghiere per farne verità. Abbiamo spalato bugie per cercare giustizia. Non è servito. Ora ci copriamo gli occhi, per pudore, per amore, per rimpianto. E andiamo via nel suono lontano dell’orizzonte di sempre. Ha smesso di piovere: oggi, fra cielo e terra, non si mormora più di foglie antiche a far l’amore col vento.