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Tempi moderni

Creato il 25 febbraio 2013 da Nehovistecose

(Modern Times)Locandina

Regia di Charlie Chaplin

con Charlie Chaplin (l’operaio), Paulette Goddard (la monella), Stanley J. Sanford (Big Bill), Henry Bergman (proprietario del ristorante), Chester Conklin (il meccanico), Hank Mann (un ladro), Louis Natheaux (un ladro), Stanley Blystone (lo sceriffo), Allan Garcia (il padrone della fabbrica), Sam Stein (il caporeparto), Juana Sutton (la donna dalla donna coi bottoni), Cecil Reynolds (il cappellano).

PAESE: USA 1936
GENERE: Comico
DURATA: 83’

Operaio alla catena di montaggio, Charlot viene licenziato perché impazzito. Innamoratosi di un’orfana, cerca di trovare un lavoro stabile per costruirsi una vita, ma ogni volta finisce per perderlo e finire in galera…

Scena del film

Nonostante l’avvento e la consacrazione del cinema sonoro, Chaplin resta fedele a se stesso e, sei anni dopo l’immenso successo di Luci della città, torna alla regia con un film orgogliosamente muto che è anche considerato il suo capolavoro e uno dei capisaldi della storia del cinema. Non è soltanto un film, è il testamento di un piccolo grande genio che condensa in 80 minuti il suo punto di vista sulla vita, la morte, l’amore, la società civile, le relazioni umane. Attacca indistintamente – ma con lucidità – capitalismo e stacanovismo, due concetti riassunti nella (giustamente) celebre sequenza della catena di montaggio; irride le paure americane (come quella del comunismo) e i meccanismi che regolano la giustizia, si fa beffe della borghesia e della chiesa; mette in scena una società fagocitante, standardizzata e spersonalizzante che ha perso il senso delle cose e si è dimenticata del concetto di uomo. È il suo film più arrabbiato, e lo dimostra il fatto che in maniera maggiore rispetto al passato ricorra al grottesco e alla caricatura; è, eccezion fatta per un manciata di sequenze davvero esilaranti, il suo film meno divertente, meno sghignazzante, più graffiante e (più o meno) sottilmente satirico.

Scena del film

Tredici anni prima di 1984 di Orwell, Chaplin inscena con agghiacciante preveggenza una massa instupidita e incapace di ribellarsi, teleguidata e controllata a vista dal grande fratello. E con un umanesimo lirico decisamente avanti coi tempi, suggerisce che soltanto i reietti, i perdenti, gli ultimi, conservano un barlume di civiltà e sensibilità. Solo l’unione di due solitudini può ancora far sperare in qualche cosa di buono. La sequenza finale, oltre che essere una delle più commoventi e famose della storia del cinema, rappresenta con la sua fertile ambiguità (i due camminano verso il tutto o verso il niente?) l’apice malinconico e poetico di un film immortale, struggente, divertente, unico. La storia d’amore tra il vagabondo e la monella è, probabilmente e senza esagerare, la più bella ed emozionante mai apparsa sul grande schermo. Chaplin attore (46 anni compiuti) sfodera un atletismo che farebbe invidia a un ventenne (si veda come corre sui pattini) e raggiunge l’apice della sua pantomima, mentre il Chaplin regista mescola alla perfezione ricerche stilistiche estremamente “personali” (il piano sequenza, la profondità di campo) con innovazioni formal- concettuali che tengono conto anche del cinema europeo (l’accostamento delle prime due inquadrature, le pecore seguite dagli operai, non possono non far pensare all’opera di Ejzenstejn).

Scena del film

Come in Luci della città, l’avvento del sonoro serve a Chaplin non per annientare l’umorismo slapstick, bensì per accentuarli grazie all’uso di rumori e suoni. I dialoghi ci sono, ma escono soltanto da apparecchi meccanici (un registratore, l’interfono del padrone della fabbrica) che li privano della loro fonte umana e quindi li “spersonalizzano”. E il potere delle immagini resta intatto, cristallino. La canzone finale, una versione di Je cherche après Titine eseguita da Chaplin con la propria voce e in un buffo grammelot, rappresenta allo stesso tempo il trionfo e la derisione suprema della parola: Charlot non sta dicendo nulla, ma la gente lo apprezza comunque per COME lo dice, il pubblico batte le mani, il titolare del ristorante gli offre un contratto. È una metafora della riluttanza chapliniana rispetto alla parola, ma anche una delle riflessioni più geniali sull’illusorietà del verbo. Successo di pubblico tiepido all’uscita. Ottimo lavoro scenografico di Charles D. Hall e perfetta interpretazione della Goddard, dolce e bellissima 25enne compagna del regista. Un film imperdibile, attualissimo, indimenticabile.

Voto


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