Tempo di recupero, Tempo di leggere:
Osvaldo Soriano, Raymond Chandler, Roberto Bolaño
Ognuno di noi è in attesa di giocare la partita di calcio della vita. Molti la giocano senza neanche saperlo, che è la partita della vita. No, non quella del cuore. Quella è un’altra cosa e qui non ci interessa. Alcuni di noi attendono una partita che magari si giocherà a giorni, e non vivono più: io potrei raccontarvi di una partita che si disputerà a breve e di come mi vivo i giorni che mancano, ma il fatto è che non la giocherò io. Io mi limiterò a guardarla, magari allo stadio, e sarò soltanto uno spettatore. Nell’attesa che inizi, siccome andrò relativamente presto – un paio d’ore prima del calcio d’inizio – mi porterò un libro allo stadio, magari Raymond Chandler, magari Trouble is my business. I libri allo stadio entrano gratis, soprattutto quelli di Raymond Chandler, di Osvaldo Soriano e di Roberto Bolaño. I capi degli Ultrà dovrebbero sventolare tutti un libro e averne letti tanti: soltanto così potranno imparare a rispettare gli avversari e a raccontare, contrappuntare, con cori adeguati, le gesta dei propri eroi. Raccontare storie è maledettamente difficile. Perché non basta scrivere per saper raccontare. Ecco, mi piace pensare a Osvaldo Soriano, non tanto come a uno scrittore, ma come a un facitore di storie, quali esse siano: quelle brevi dei suoi racconti sul calcio o quelle più corpose dei suoi romanzi. Certo, racconti come memorie, quando ad esempio ci disegna un campo di calcio tra i campi, nella sperduta Patagonia degli anni Cinquanta, tra due improbabili formazioni che non sempre schierano undici uomini, o che comunque difficilmente restano in undici fino al novantesimo. Arbitri “venduti” per una damigiana di vino; allenatori che dormicchiano su di un tavolo negli spogliatoi durante la partita; portieri con scarpe ortopediche o senza mani, con moncherini, che devono parare il rigore del Giudizio Universale. Poesia. Narrazione fatta di poesia, sempre e soltanto dalla parte degli umili, di coloro che hanno perso la partita più importante, ma che non hanno mai rinunciato alla propria dignità e se hanno messo in gioco anche quella, l’hanno fatto conservando sempre un ghigno di autoironia. Come el Mìster Peregrino Fernàndez, quello del lungo racconto di memorie, quello che più che un allenatore è un filosofo – «Guardami, se non fossi così vecchio si potrebbe dire che sono un personaggio di La montagna incantata, che tossisce come un tubercoloso e discute di filosofia»-, che ha attraversato la Seconda Guerra mondiale in tutti i campi (nel vero senso della parola) più caldi. Colui il quale cita Chandler – «Un tempo sapevo tutto Chandler. Con il nervosismo che hai addosso prima delle partite, rinchiuso nello spogliatoio che sembra una gattabuia, ti devi costruire il tuo mondo, altrimenti ti spegni dentro. Io leggevo sempre qualcosa mentre l’allenatore diceva le solite fesserie»- , e telefona a Camus e va alla prima di Le mosche di Sartre. Colui il quale mette su con Peròn una partita con Lumumba contro una rappresentativa belga, prima dell’assassinio del leader indipendentista. E ancora: colui il quale racconta l’Italia di Mussolini e l’irride senza mezzi termini. Compreso Papa Pio XII che, con il Duce, organizza una Coppa sostitutiva del campionato, un po’ arrangiata e con soldi in nero. Con Gramsci condannato a morte, l’omicidio Matteotti alle spalle e loro a tirare calci a un pallone… C’è molto Soriano in Peregrino Fernàndez, che è: «uno sconosciuto che attraversa la piazza in lontananza».
Questa immagine, questo sfumare in lontananza, ci fa venire in mente Roberto Bolaño e i suoi, di personaggi, i quali, prima di scomparire, sono ripresi di spalle, nell’atto di andarsene. E comunque, anche prima di congedarsi, i personaggi di Bolaño, così come quelli di Soriano, non sono mai perfettamente centrati. Ecco, questa lateralità è una cifra stilistica dello sguardo di Osvaldo Soriano e di Roberto Bolaño, il quale, però, per ragioni a me incomprensibili, non apprezzava molto lo scrittore argentino. E questo è un peccato, un grande, grandissimo peccato, perché Soriano ha sempre prediletto coloro che raminghi, tristi e solitari attraversano il mondo (non solo la Pampa argentina come in Un’ombra ben presto sarai), lasciando tracce sparse che lo scrittore segue senza mai calpestare, in quella che è una sorta di rispettosa e solidale investigazione. La solidarietà tra gli umili è cosa bellissima e poeticissima e di umili ne è stata piena la storia del mondo: cosa sono Philip Marlowe e Stan Laurel o, sempre Marlowe e lo stesso Soriano, se non coppie di sconfitti disillusi che si ritrovano a farsi compagnia e a sbeffeggiare perfino la serata degli Oscar di Hollywood? C’è rigore in Soriano, molta coscienza del proprio ruolo, e c’è sempre un’etica, una morale, una precisa scelta ideologica dietro. Tutto si intreccia e anche il calcio può diventare un espediente per raccontare la politica, per raccontare i costumi sociali di un’epoca e di un periodo storico importante. Certo, Soriano è argentino, e questo è evidente anche solo nel modo in cui il calcio è vissuto, e in ciò che rappresenta per un’intera nazione: tra il fango e la polvere, nelle estreme periferie di un Paese sterminato, esso conserva lo stesso il fascino di un gioco quasi benedetto da Dio. Quasi, perché in realtà non è così, in realtà: «a Dio non piace il calcio, ragazzo. Perciò questo paese va così, come la merda».
Gianluca Minotti