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A volte sembra davvero di stare sul Titanic. La nave sta affondando e l’orchestra continua a suonare imperterrita e ad invitare al ballo, come se niente fosse, senza riuscire a rendersi conto che il tempo è scaduto.
La riforma del finanziamento pubblico dei partiti è diventata la questione centrale del dibattito politico, in questi ultimi giorni. Colpa – anzi, merito – degli scandali che hanno coinvolto l’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, e quello della Lega, Francesco Belsito. La campagna del Corriere della Sera su “politica e trasparenza” cavalca il malcontento (eufemismo) popolare, ricordando in prima pagina i giorni trascorsi dall’impegno dei presidenti delle Camere “per la riforma del finanziamento ai partiti”. E se un giornale solitamente sobrio come il quotidiano di via Solferino comincia a svestire i panni di vigile del fuoco, vuol dire che qualcosa è cambiato anche nell’umore di quel vasto strato di popolazione – moderata, non certo antagonista – che ha guardato con fiducia alla costituzione del governo Monti. La classe politica, more solito, si è chiusa a riccio. Non contenta di avere tradito (usiamo le parole, visto che ci sono) la volontà popolare, che con una maggioranza bulgara (90,3% di Sì) nel 1993 aveva abolito il finanziamento pubblico ai partiti, facendo rientrare dalla finestra, sotto forma di “rimborsi elettorali”, quel che aveva fatto uscire dalla porta, tira fuori le unghie e si arrocca in difesa.
Il pericolo mortale per la democrazia, par di capire, è l’antipolitica. Verissimo. Ma quali sono i confini esatti della demagogia? Quelli stabiliti dagli attuali famelici partiti? Ha cominciato il segretario del Pd, Pierluigi Bersani: “l’onda dell’antipolitica rischia di travolgere tutti”. A ruota, i partiti che sostengono l’attuale maggioranza, con la posizione “ufficiale” contenuta nella relazione alla proposta di legge sulla trasparenza dei bilanci dei partiti: “cancellare del tutto i finanziamenti pubblici sarebbe un errore drammatico”. Buon ultimo, è arrivato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tutti d’accordo, sulla base di una motivazione pelosetta: altrimenti, “si escludono dalla politica quelli che non hanno soldi”. A parte il fatto che i casi di arricchimento personale verificatisi con i “rimborsi elettorali” non hanno precedenti storici, va detto che la selezione della classe politica segue ormai logiche arcinote. Non è più, per niente, questione di avere una possibilità. Se non fai parte di un certo giro, se non sei tra i favoriti della ristretta oligarchia che nomina deputati e senatori, sei tagliato fuori. E qua sta il vero problema. Quello di una riforma elettorale che tutti, a parole, auspicano, ma che si è sostanzialmente arenata tra le stanze del Parlamento. La classe politica fa finta di non capire che se non restituirà al popolo il potere di scegliersi propri rappresentanti, espone al rischio di implosione l’intero sistema.
Quella che chiamano antipolitica è la manifestazione più evidente, invece, del bisogno di politica. Politica è anche l’urgenza di pulizia e di moralità. L’unico aspetto positivo della legge in discussione, per alcuni, è la previsione di controlli esterni sui bilanci. Cosa che, in realtà, dovrebbe indurre ad un’ulteriore riflessione. Possibile che senza il carabiniere o il finanziere diventi utopia il rispetto della legge? Possibile che i partiti non riescano a darsi un codice di autoregolamentazione serio e a farlo rispettare mediante gli organismi di controllo che i loro statuti pure prevedono, proprio per questo scopo? Tangentopoli non è un ricordo lontano. La situazione attuale ne è la continuazione su di un piano ancora più basso. Perché se là (“rubavo per il partito”) c’era il tentativo di giustificare i costi del sistema dei partiti, qua siamo all’arricchimento individuale, alla casta che si nutre del sangue dei contribuenti per perpetuarsi, sorda e indifferente al “grido di dolore” che sale dalla società.
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