Magazine

Teresa Ferri - Eufemismi e brutte parole

Creato il 18 febbraio 2011 da Ellisse

l'acchiappaparole di Vannini

Premetto che non amo le cosiddette “brutte parole”, né è nel mio costume far uso di esse. Appartengo a una generazione educata al culto della bella lingua, ma non posso non tornare con la memoria, e con una certa nostalgia non passatista al ’68, quando, gli eventi, le cose, i comportamenti venivano chiamati con il loro nome. Contemporaneamente, i miei interessi, gli studi, l’attività critico-letteraria, la professione mi hanno portato a dedicarmi anche alla retorica, alle sue figure e all’argomentazione, per cui mi ritengo in un certo senso fortunatamente ‘deformata’ e particolarmente attenta all’uso della lingua. Ho dedicato una vita all’interpretazione e all’analisi dei testi letterari, sezionandoli con acribia per dare una voce il più possibilmente fedele alle esigenze e alle intenzioni della scrittura di poeti e scrittori, per cui sono avvezza a dare spazio a una sensibilità linguistica e lessicale che mi conduce a spogliare le parole delle loro incrostazioni, più o meno edulcorate, e così leggere nel loro uso finalità argomentative e ideologiche (ma non so se sia il caso oggi di continuare a parlare di ideologia). Premesso tutto questo non a fini narcisistici e autobiografici, ma solo per motivare l’origine di queste mie rapide riflessioni, voglio soffermarmi sia pure superficialmente e senza alcuna acribia filologica, sull’utilizzo della lingua in questi nostri giorni, infestati da un fioccare di notizie che coinvolgono i campi della politica, dell’etica e di un civile vivere democratico. Il mio interesse di letterata e non di politologa va soprattutto alla lingua dei mezzi d’informazione e dei politici, poiché è da essi che veniamo letteralmente bombardati e tracimati quotidianamente. Strattonata dal mio orizzonte di studi dai media, che riversano nelle nostre orecchie e nei nostri occhi spesso poco avvertiti, una marea di informazioni e parole, mi sono resa conto che molto frequentemente si usa il lessico con eccessiva disinvoltura, una superficialità che, a mio avviso, è strategicamente rivolta a confondere e ad ambiguare i messaggi per una serie di motivi che non possono non allarmarmi.

Basta aprire un qualsiasi giornale o sintonizzarsi su un qualsiasi canale televisivo e si registra un fenomeno, sempre più evidente, che, come un morbo contagioso e virulento, riguarda tutti, analisti politici, giornalisti televisivi e della carta stampata, politici: una sorta di fariseismo linguistico che impedisce loro (anche ai più impegnati e onesti) di usare i termini appropriati quando vanno a toccare argomenti particolarmente scabrosi e personaggi pubblici con ruoli istituzionali. Per esempio, da diversi giorni è scoppiato il vibrione Ruby rubacuori: in televisione, sui giornali, sul web non si fa che sentire o leggere tutte le imprese del nostro Presidente del Consiglio, le serate hard di Arcore, l’allegra brigata a pagamento, le registrazioni di telefonate non certo edificanti corse nell’etere, improperi stizziti e pepati urlati nella cornetta, un impressionante traffico di denaro a favore di questa, quella o quello, denaro spesso annotato con acribia in registri contabili degni della migliore tradizione dei mercanti fiorentini, e tanto altro ancora. Ebbene, mentre le penne si sono esercitate nella creazione di neologismi e metafore, assonanze e figurazioni idonee a titillare un incomprensibile ma reale compiacimento voyeuristico nel lettore-ascoltatore, raramente dal laboratorio lessicale della nostra pur esaustiva lingua italiana sono stati attinti i lemmi appropriati. Si preferisce far ricorso a figure retoriche dell’attenuazione, velare pudicamente il significato con slittamenti di senso ed eufemismi, sperimentare compiaciuti giochi linguistici tesi a coinvolgere il lettore-ascoltatore e perfino a divertirlo, fin quasi a consentirgli una partecipazione attiva al bunga bunga nazionale.

Così le ragazze coinvolte nei festini, e generose delle loro grazie a pagamento, non vengono mai chiamate con il sostantivo che qualsiasi dizionario consiglierebbe, cioè prostitute, e fino al punto che tale ipocrita e codarda omertà linguistica è arrivata a trasformarsi in censura, concependosi addirittura l’impossibilità che il termine “prostituta” possa essere a buon diritto usato a proposito di queste gentildonne, come mi è capitato di ascoltare nel corso di un talk show della gloriosa prima rete televisiva, cioè “Porta a porta”. Di rimando, alcuni giorni successivi, l’ineffabile Sgarbi, ha sottolineato: “E’ evidente la strumentalizzazione che si manifesta nella insistenza con cui si chiamano prostitute tutte le donne andate ad Arcore. E’ prostituta chi esercita un mestiere, non certo chi va a dormire o chi frequenta la casa di un uomo. Non è una prostituta ma una donna, amante e libera di fare quello che desidera e anche di essere interessata”. Questa l’accigliata glossa lessicale del critico d’arte, compulsato trasversalmente (non so fino a che punto poi sia corretto parlare di trasversalità) come opinionista nei vari canali televisivi, nazionali e privati. Invece il termine cui si ricorre preferibilmente è "escort", che consente di ambiguare la realtà di riferimento, approfittando anche della buona fede di persone poco avvertite e scarsamente attrezzate.

A mio parere, quando uno dei cosiddetti “festini” vede la partecipazione di tante fanciulle nude impegnate nell’esibire le loro grazie e nel dispensare carezze e altro ai signori presenti, allora il vocabolario pretende che si parli di “orgia” e non di “cena” o “festino” o “discoteca” et similia. Apro il dizionario curato da De Mauro e alla voce “orgia” leggo: "Nell'antica Grecia, cerimonia rituale misterica in onore di varie divinità, caratterizzata da comportamenti sfrenati, manifestazioni tumultuose e dalla sospensione delle norme che regolano i rapporti sociali". E doveva essere per primo uno straniero a usare appropriatamente la lingua italiana e a non aver paura di chiamare le cose con il loro nome. E non mi riferisco a un umanista, bensì a Nouriel Roubini, il massimo analista economico del mondo, che nel rivolgersi a noi italiani usa una terminologia idonea: “Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie" ( http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150092948099756&id=291472488097 ). Sempre lo Sgarbi mal tollera invece che si faccia usa del termine “orgia” e mi è stato riferito che è stato colto da una delle sue crisi furibonde quando l’ha sentito pronunciare dalla sua interlocutrice nel corso di una puntata di Matrix.

Io non credo che s’ignori l’esistenza di questa parola, ma penso piuttosto che il termine pagano risulti impronunciabile a coloro che, pur critici, pur all’opposizione, temono di irritare i veri poteri forti del nostro Belpaese, per cui una forma di rispetto e di pudore farisaici ammanta la nostra lingua e costringe i vari locutori, sia pure impegnati in una qualche forma pudica di opposizione, a ricorrere a lemmi o a enunciati attenuativi. Ovviamente neppure la Chiesa si sottrae a queste acrobazie retorico-morali così, a proposito delle abitudini del presidente del consiglio, Monsignor Fisichella parla di "debolezza morale", eufemismo dalle braccia onnicomprensive idonee a giustificare comportamenti inammissibili e peccaminosi se tenuti da altri, da anonimi cattolici che non ricoprano ruoli di potere politico ed economico.

Questo fenomeno mi preoccupa non tanto come cultrice della bella lingua italiana, quanto piuttosto come cittadina adusa a riflettere sui costumi linguistici e non, poiché interpreto tale uso fumoso del lessico come segno rivelatore di un atteggiamento passivo e connivente che certamente non può che stimolare successivi comportamenti e risposte sociali e politiche altrettanto tremebonde e inconcludenti. “Il linguaggio è azione”, ebbe a scrivere perentoriamente lo strutturalista Tzvetan Todorov e, ancor prima, Ludwig Wittgenstein aveva altrettanto energicamente annotato: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Se è dunque vero che il linguaggio è azione, è altrettanto vero che l’uso inappropriato della lingua conduce inevitabilmente a un’azione inappropriata, a una non-azione, se si usa un lessico distorto teso alla mitigazione consapevole e finalizzata. Se si conviene con il Wittgenstein che i limiti del mio linguaggio coincidono con i limiti del mio mondo, allora l’attenuazione linguistica non può che portare a una visione-rappresentazione del mondo attenuata, in cui non si distinguono più i confini tra il positivo e il negativo, tra la destra e la sinistra, tra il lecito e l’illecito.

Tale pruderie linguistica, di cui si rivelano pericolosamente affetti i politici e gli operatori dell’informazione, sia radiotelevisiva che della carta stampata, si fa segno linguistico di una sorta di subdola e, in alcuni casi, inconsapevole connivenza, che viene a stabilirsi tra analisti e politici da un lato e chi deraglia dalle norme sancite dal codice etico e sociale mentre governa, decide e fa le leggi. E non a caso Di Pietro e Travaglio, ai poli opposti del linguaggio e dello stile, gli unici che usino le parole appropriate sui fatti e misfatti di cui si parla in questi nostri giorni, vengono considerati come pericolosi “rivoluzionari”. L’uno è visto come un rozzo utilizzatore finale della lingua italiana, l’altro come un raffinato Robespierre dalla parola ironica ed estetizzante e, comunque, entrambi considerati come dei pericolosi sovversivi soprattutto di una norma linguistica sempre più tentata dalla mitigazione e dallo sfumato, e per questo motivo ricacciati in un angolo e ghettizzati da una sorta di palese disprezzo, che tuttavia cela irritazione e paura.

Anche se ritengo che nessun eufemismo, nessuna metafora potrà mai riuscire a edulcorare la realtà, penso però che un uso della lingua reticente e allusivo serva soltanto da oppiaceo per addormentare le coscienze e le capacità inferenziali di chi legge e/o ascolta. Le parole e il loro utilizzo inappropriato stanno edificando da anni, mattone su mattone, un codice etico e comportamentale ambiguo, elastico, tollerante e complice, che conduce inevitabilmente alla non-azione, a quella sorta di paralisi che ha mummificato la sinistra e che ha regalato il Paese a un Presidente del Consiglio di cui certamente non si può andar fieri, in base a quel che si sente e si legge.

Teresa Ferri


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Dossier Paperblog