Magazine Poesie

Teresa Ferri: Sostiene Pereira, ovvero storia di una delega

Da Ellisse

antonio tabucchiPubblico un saggio di Teresa Ferri su “Sostiene Pereira”, un buon modo per ricordare Antonio Tabucchi, non solo romanziere e saggista ma anche il più grande conoscitore e traduttore di Pessoa in Italia, deceduto oggi a Lisbona. Ringrazio Teresa Ferri per avermelo riproposto in questa occasione.

“Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi, ovvero storia di una delega * (Omaggio ad Antonio Tabucchi)


La scrittura di Antonio Tabucchi dal 1975, anno in cui viene pubblicata Piazza d’Italia, fino al marzo del 1997, che vede l’uscita di La testa perduta di Damasceno Monteiro, sembra voler ingaggiare con il lettore una partita che, di opera in opera, assume sempre più i contorni di una sfida. Le strategie, le mosse, gli accorgimenti retorici attivati sono sempre diversi, ma obbediscono tutti all’esigenza di emblematizzare la narrazione e di affidare alla metafora il compito di infittire il racconto di percorsi polisemici, che disegnino il procedere di una riflessione tesa a concretarsi in parola attraverso gli impervi tragitti della creazione artistica. Lo scrittore regge sapientemente le fila di un discorso che spesso indulge alla tentazione di dissimulare l’ambiguità mediante una chiarezza di superficie che, tradotta da una referenzialità solo apparente e immediata, coinvolge il lettore, per destabilizzarlo subito dopo e intrappolarlo tra le maglie dell’incertezza interpretativa.

Ogni testo comunque, sia nel ristretto spazio di un racconto, sia nella più ampia dimensione del romanzo, racchiude interrogativi che, materiati in personaggi, in vicende, in episodi, esprimono in linguaggio narrativo il tentativo di coniugare problematiche letterarie ed esistenziali all’interno di un intreccio, che nell’effetto di sospensione sceglie la sua risorsa privilegiata. Così nessuna opera pare venire meno all’implicito impegno di farsi spazio della domanda, di raccontare e insieme interrogare, alonando scrittura e lettura di un’atmosfera governata dal dubbio, dall’indefinito, da quel senso di precarietà e di effimero che, se è tipico di tanta produzione novecentesca in versi e in prosa, si fa stilema dell’universo narrativo tabucchiano.

Un rapporto strettissimo quello che lega lo scrittore alla letteratura, evidenziato anche da un raffinato e sapiente giuoco di citazioni (Borges, Pessoa, Fitzgerald, Pirandello, ecc.) funzionale a esprimere, mediante il meccanismo intertestuale e polifonico, il combinarsi sapiente di tradizione e innovazione, nonché la fertile relazione che il letterario intrattiene con il culturale. Colta e rappresentata nelle sue più accorte divagazioni e mutazioni, nelle proficue operazioni di scambio e di travestimento, tale interazione, ambizione della stessa letterarietà, suggerita, occultata o dichiarata, si fa cifra di questo discorso narrativo. Esso, appunto come dis-corso, si sposta continuamente tra due piani, quello della realtà materiale e quello della realtà testuale, in una continua pendolarità cui non è estranea la partecipazione, ricercata o inconsapevole, della realtà psichica e dei suoi più o meno scoperti angeli e demoni.

Un rapporto dunque complesso e incisivo quello che Tabucchi intrattiene con la letteratura e che va ben oltre la rigida distinzione tra i generi letterari, una distinzione che del resto egli stesso ritiene ormai superata, come ha avuto occasione di sottolineare nel corso di un’intervista, nel cui epilogo, richiesto di autodefinirsi, si è espresso con tale programmatica formula autoreferenziale: “Uno che si cerca e si cercherà sempre” (Gaglianone, Cassini 1997: 34).

Infatti se la letteratura e la scrittura si costituiscono come il luogo privilegiato di questa esplorazione di se stesso, la ricerca della propria identità si fa specchio su cui si rifrangono anche interrogativi di ordine letterario. Come in un ininterrotto giuoco di rimbalzi, dubbi, domande, convinzioni pronte a convertirsi in incertezze, si spostano con impercettibile rapidità dall’ambito esistenziale a quello culturale e viceversa, mentre un interrogativo proteiforme serpeggia lungo racconti nei quali, in filigrana, si scrive l’indagine di un Ulisse tardo novecentesco che, non più pago di trasgredire l’antico tabù e di violare le imperscrutabili leggi degli dei, mira alla rappresentazione stessa del miraggio e della disperata sua rincorsa da parte di un uomo espropriato di valori e illusioni nel cui nome, per secoli, ha vissuto, lottato, gioito e pianto.

La scrittura materializza dunque un segno stratificato, la narrazione, che si snoda su più piani, in cui convivono, con pari diritto di cittadinanza, lo scrittore Tabucchi, il lusitanista, l’uomo di fine secolo e il narratore, il personaggio, l’eroe o antieroe e, non ultimo, il lettore. Come un abile giocoliere che da uno stesso cilindro tiri fuori velocemente oggetti di varia natura, Tabucchi, con sapienza teorica e maestria narrativa, estrae vorticosamente interrogativi esistenziali e quesiti letterari, li traveste, li camuffa, gli uni con le fattezze degli altri in un reciproco processo di scambio che, per accumulazione, arricchisce entrambi nella misura in cui li problematizza e li moltiplica. Del resto, nel corso di un’intervista rilasciata il 12 luglio 1992 per la “Gazzetta di Pesaro”, a Giovanni Belfiori che gli chiedeva se esista una ragione che motivi la scrittura, Tabucchi ha risposto, formulando a sua volta una serie di domande tese a riproporre il rapporto di reciprocità tra la scrittura e le numerose e spesso inesplicabili esigenze che la determinano:

Esistono mille ragioni dello scrivere. Ma non sono ancora riuscito a capire esattamente cosa sia la scrittura. Si scrive per paura? Per coraggio? Si scrive per sentirsi vivi, per allontanare l’idea della morte, per affermare il proprio io, per credere in noi stessi o in qualcosa, per giuoco, per serietà, perché la vita non basta, per cos’altro ancora? Credo che si scriva per tutto questo e per mille altre ragioni ancora. Forse si scrive anche per tentare di capire meglio, per cercare di conoscere. La scrittura è anche, credo, una forma di conoscenza.

Letteratura ed esistenza si amalgamano quindi in un impasto in cui introspezione, riflessioni teoriche e creatività si supportano e si mascherano di continuo fino a comporre tante interscambiabili facce di quel prisma che si chiama testo, la cui interpretazione, sempre polisemica, dipende dalla tessera su cui si rifrange la luce, cioè dalla prospettica più o meno palesemente evidenziata dall’autore e dall’angolazione di volta in volta privilegiata dal lettore che, coinvolto attivamente in questo processo, finisce con il diventare un ulteriore elemento del poliedro.

Autore, cioè soggettività emozionale e individualità razionale, narratore, personaggio, oggetto della narrazione e interprete vengono a fondersi in una unità, il testo, suscettibile sì di letture diverse, ma governato da leggi che, seppure sotterranee e non immediatamente decifrabili, mentre lo preservano dal rischio di diventare luogo dell’anarchia, lo predispongono a proporsi come un susseguirsi di mondi possibili, sempre a condizione che di questi universi esso esibisca ogni volta dati coerenti, consoni e appropriati a trasformarsi in architettura organizzata, in un orizzonte in cui la scrittura non si compatti in raggelata monade e la lettura possa spaziare in libertà ‘vigilata’.

Dati questi presupposti, protagonisti e vicende non possono risultare che ambigui, contraddittori, policromi e allo scrittore non rimane che rispettare la loro multiforme mobilità e sottomettere la propria affabulazione a un ruolo di mediazione, che se ne faccia testimone e interprete. Il narratore pare farsi da parte, riservarsi una posizione marginale, raccontare la storia dall’esterno, relegarsi quasi alla funzione di scriba, scegliere un “punto di vista limitato”: egli sembra rinunciare dunque alla posizione demiurgica dell’onniscienza e preferire invece la strategia della visione limitata, tecnica inventata da Henry James (Pugliatti 1985: 1-32).

Tuttavia così non è. Infatti, grazie al funambolismo narrativo di questa scrittura, grazie alle molte facce e prospettiche che eventi e personaggi vengono via via assumendo nel corso del racconto, grazie appunto alla strategia testuale di accompagnarli fedelmente e altrettanto fedelmente riprodurne il punto di vista, il narratore, nell’assumersi il ruolo di “riflettore” di tale varietà, proprio dal poliedrico rincorrersi mutevole di queste variopinte facce, riconquista quell’onniscienza cui sembrava aver rinunciato. Una sola moltitudine, titolo assegnato da Tabucchi a una sua traduzione dell’opera in versi di Ferdinando Pessoa, potrebbe rappresentare in sintesi il referente di questa rappresentazione letteraria, un ‘oggetto’ che va a rifrangersi specularmente sul narratore, che della molteplicità si fa portavoce e, insieme, soggetto agente in prima persona, rielaborando in maniera personale la lezione di Pessoa appunto e di Luigi Pirandello, maestri del doppio e della duplicità.

E Sostiene Pereira. Una testimonianza[1], pubblicato nel 1994, ruota proprio intorno al problema cardine dell’identità, significativo elemento di raccordo con i due modelli privilegiati[2]. Il breve romanzo si fa rappresentazione e messa in scena del moltiplicarsi delle identità attraverso il giuoco della scrittura. Esso non intende dare corpo tout court all’enigma che adombra il soggetto, disegnare sulla pagina la velata monade umana che, misteriosa, s’aggira tra altre ugualmente indecifrabili e sole, problematica cara a tanta letteratura novecentesca, in versi e in prosa. Questa scrittura non vuole riproporre la suggestiva antitesi pirandelliana tra “maschera” e “volto”, bensì mira a dare corpo, a conferire struttura narrativa a inquietudini di fondo e a mute domande, che assumono le fattezze di personaggi ed eventi aperti a interpretazioni multiple, la cui complessità coinvolge in maniera tanto attiva e determinante il lettore, da farne un co-protagonista altrettanto prismatico e dinamico.

Questa scrittura non fa che riprodurre se stessa e l’abisso senza nome da cui si origina: tende quindi a concretizzare il pullulare continuo dei soggetti da un’unica matrice, a lasciar scorrere prima tra le pieghe del racconto, successivamente sulla pellicola cinematografica, l’interrogativo che motiva il suo farsi e percorre e anima il suo intero snodarsi, opera dopo opera. Si tratta dello stesso quesito espresso da Tabucchi sul “Corriere della Sera” del 4 febbraio 1990, a proposito di Notturno indiano: “All’autore si proponeva, quindi, un problema d’identità ma non nel senso di sapere o non sapere chi si è, bensì in quello di sapere quanti si è, si può essere, pur essendo uno”.

Molteplicità dunque dei soggetti letterari nella loro malinconica unicità, ma anche potenzialità del letterario di sperimentare e di produrre ad libitum segni che si facciano espressione della poliedricità dell’esistenza e della polifonia letteraria. Superata la rappresentazione bifrontale e manichea della realtà, la scrittura di Tabucchi è rivolta a riprodurne la miriade, anche dissonante, di aspetti in cui la rovina della guerra convive con l’esaltazione dell’ideale rivoluzionario, l’entusiasmo giovanile con la matura abulìa delle disillusioni, il disincanto con la vitale baldanza di un credo, nel cui nome si è pronti a sacrificare la propria vita: il tutto mentre, in controluce, la stessa letteratura, concretata in narrazione spesso allusiva e criptica nei suoi più o meno espliciti rimandi intertestuali, si interroga su se stessa, sulla propria superstite, incorruttibile valenza. “Il compito che resta oggi alla letteratura, se ne ha uno, è quello di cercare di affacciarsi alla vita interiore. La realtà effettuale oggi è guardata, detta, raccontata dai mezzi di comunicazione di massa; tocca alla letteratura spiarne gli angoli bui”, precisa lo stesso Tabucchi, nel corso dell’intervista concessa a Pier Francesco Listri e pubblicata su “La Nazione” del 22 dicembre 1992.

E Sostiene Pereira. Una testimonianza si assume appieno il ruolo di spiare i più riposti meandri della realtà psichica, pur dissimulando un’attenzione esasperata alla realtà materiale, su cui addensa fitte ombre fino quasi a disintegrarla mediante il meccanismo dell’iterazione, spesso attivato per sottolineare una sorta di nevrosi dell’abitudine, un’esasperata affezione a rituali senza importanza, sui quali la scrittura ama indugiare fino a raggiungere sapienti effetti retorico-argomentativi. Un sottile umorismo, una fine e leggera ironia avvolgono infatti il personaggio e, insieme, denunciano l’acuto e partecipe sguardo di un autore, che fa della leggerezza la cifra privilegiata per narrare e narrarsi, per frugare insistentemente tra le tenebre di un mondo, il cui enigma è direttamente proporzionale all’abilità con la quale vengono creativamente manipolati i cosiddetti effetti di realtà.

Il romanzo è ambientato a Lisbona nel fatidico agosto del 1938, durante la guerra civile, in un momento in cui dall’Europa, che soggiace alle dittature di Salazar, Franco, Mussolini e Hitler, si levano fetori di morte (“tutta l’Europa puzza di morte”, SP: 14). Gli stessi nella narrazione si trasformano in metonimici lezzi, quali i maleodoranti tradimenti che si annidano tra i fornelli della portiera-spia del regime, la codarda connivenza del direttore del “Lisboa”, il tanfo letale di un conformismo strisciante e opprimente come la giornata agostana, che avvolge nella sua afa incolori comparse alla rincorsa di traballanti trofei che tanti piccoli uomini, desiderosi di diventare eroi, e improbabili eroi bramosi di defilarsi dalle proprie responsabilità, issano nella sterminata regione dove l’inadeguatezza si coniuga con il narcisismo, le tante incertezze con la precarietà di un’arroganza dai mille volti e nomi, la sete di dominio con misere e goffe caricature di se stessi e delle medesime ideologie al cui riparo essa prolifica.

Sin dal titolo e dal sottotitolo autorale, questo testo si colloca in una dimensione aperta, interlocutoria e pone alcuni interrogativi: chi è Pereira? perché testimonia? di quale testimonianza si tratta? Se il sottotitolo, pur nella indeterminatezza che ne invalida la funzione esplicativa, trova tuttavia una giustificazione nella scelta di un verbo epistemico ‘imponente’ come sostenere[3] su cui si regge la clausola-guida “sostiene Pereira”, che punteggia tutti i capitoli, li apre e spesso a chiasmo li chiude, il personaggio Pereira non è immediatamente identificabile, al di là delle scarne notizie inferibili fin dalla prima pagina. Il lettore viene infatti subito informato sull’identità socio-culturale del dottor Pereira: è un piccolo intellettuale, redattore capo della pagina culturale del “Lisboa”, che trascina stancamente la sua vita senza affetti nella solarità di un’accecante Lisbona, stridente con il suo stato d’animo[4]:

Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte” (SP: 7).

Fin dall’inizio la scrittura evidenzia l’opposizione “vita” / “morte”, un’antitesi intorno alla quale si struttura la narrazione e alle cui leggi si conformano gli stessi protagonisti[5]. Nel tentativo di fornire, non si sa a chi, una spiegazione all’intrusione di Thanatos nella calda giornata agostana, il pensiero di Pereira corre all’agenzia di pompe funebri del padre, alla moglie morta di tisi, alla propria cardiopatia, tutti elementi che potrebbero coerentemente legittimare l’inquietante presenza:

[...] lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo. Sarà perché suo padre, quando lui era piccolo, aveva un’agenzia di pompe funebri che si chiamava Pereira La Dolorosa, sarà perché sua moglie era morta di tisi qualche anno prima, sarà perché lui era grasso, soffriva di cuore e aveva la pressione alta e il medico gli aveva detto che se andava avanti così non gli restava più tanto tempo, ma il fatto è che Pereira si mise a pensare alla morte, sostiene (SP: 7).

La sequenza, esemplare di uno stile tendente al parlato[6], risulta governata da una sintassi paratattica retta da uno dei meccanismi ricorrenti della coesione testuale e indicatori dell’oralità: il parallelismo (“sarà perché [...] sarà perché [...]”). Ed è proprio lo stile cui è affidato il racconto-confessione a suggerire una situazione psicoanalitica, nel corso della quale il paziente, richiesto dall’analista, tenti di interpretare le libere associazioni operate, di proporne spontaneamente altre, di affidarsi a un giuoco combinatorio da consegnare all’attenzione del terapeuta, cui può e deve sottolineare anche quanto ha piacere di ricordare e quanto invece preferisce tacere. La parola fluisce incurante delle leggi che presiedono al suo organizzarsi in scrittura e invece rispetta l’andamento elocutivo tipico di una conversazione o, meglio, di una struttura relazionale analitica. L’abile strategia narrativa e lo stesso idioletto di Tabucchi sembrano voler suggerire e caldeggiare un tale percorso di lettura e rinviare il lettore a un altro celebre personaggio letterario, a quello Zeno sveviano le cui vicende sono ugualmente scandite da un enunciato ricorrente, ma mai ossessivo come il refrain che, quale nevrotico tic, percorre tutta la narrazione, senza tuttavia meritare la definizione di “vistoso soprammobile stilistico” ad esso infondatamente attribuito da Coletti (1994).

Immettendoci lungo questo tragitto interpretativo, se Pereira, interrogato, risponde allo psicoanalista, quest’ultimo si fa ricevente di tale racconto, ma non necessariamente a sua volta espositore di quanto ha ascoltato. Esiste dunque qualcuno che, delegato, si assume la responsabilità di riferire quanto via via Pereira va sostenendo. Il depositario-delegato non ha volto, né nome, come il buon secentista di manzoniana memoria ma, pur nel suo anonimato, ha la possibilità di affidarsi alla volatilità di una voce che, fattasi scrittura, conserva inalterate i tratti dell’oralità e riferisce quanto Pereira in un tempo imprecisato è andato attestando. Un’ulteriore domanda si fa quindi strada: di chi si tratta? Ed ancora: è proprio il primo depositario della testimonianza a trasmetterci direttamente il racconto ascoltato, oppure egli, a sua volta, se ne è fatto delegante e ha affidato ad altri il compito di raccontarlo? Non è l’identità del delegato ad interessarci, quanto piuttosto la sua funzione che, mentre sembra limitarsi a fare da ponte tra l’autore del romanzo e il personaggio Pereira, non si esime talvolta dall’intervenire, per ripetere ad eco il dubbio, la domanda che continuamente rimbalza dal delegante al delegato, e quindi al lettore. Una domanda che potrebbe sintetizzarsi nello scarno bisillabo euristico (“perché?”), che tuttavia si gonfia di tutte le irrisolte escrescenze della realtà e di una storia, di cui tanti orrori sono ancora da motivare.

Tornando al romanzo, è “per caso, per puro caso” (SP: 7) che Pereira, mentre sfoglia una rivista letteraria, s’imbatte in un articolo dedicato al problema della morte, scritto da un certo Francesco Monteiro Rossi. Lettolo, ne copia “macchinalmente” una parte senza sapere il motivo; quindi cerca nell’elenco telefonico il cognome Rossi, compone il numero e, dall’altro capo, gli risponde lo stesso Monteiro. Pereira si presenta come il direttore della pagina culturale del “Lisboa” (“[...] è un giornale di Lisbona, è nato qualche mese fa, non so se lei lo ha visto, siamo apolitici e indipendenti, però crediamo nell’anima, voglio dire che abbiamo tendenze cattoliche [...]”, SP: 9) e giustifica la sua telefonata, adducendo a pretesto la necessità di assumere altri collaboratori. Stabiliscono di incontrarsi e l’appuntamento viene fissato per la sera stessa, in una piazza della capitale. La casualità, in consonanza con la dimessa, insicura persona del giornalista e con l’atmosfera che si percepisce in certa narrativa pirandelliana incline al fantastico, produce dunque l’incontro.

Sin da questo primo approccio, si evince che il giovane non risponde all’idea che Pereira se n’era fatto in base alla lettura dell’articolo. Monteiro ama la vita ed è lontano dal porsi interrogativi filosofici sull’anima e sulla resurrezione della carne. Tuttavia, bisognoso di lavorare, aderisce con la famelicità dei suoi giovani anni alla proposta di scrivere necrologi anticipati per i grandi scrittori contemporanei, ma cinicamente avverte: “[...] dottor Pereira, io parlo bene le lingue e conosco gli scrittori della nostra epoca; a me piace la vita, ma se lei vuole che parli della morte e mi paga, così come mi hanno pagato stasera per cantare una canzone napoletana, io posso farlo” (SP: 23). Pertanto il rapporto tra questi due personaggi così diversi l’uno dall’altro, ma complementari, si apre all’insegna del conflitto “vita” / “morte”, mentre la precisazione del giovane sottolinea lo iato incolmabile che separa la vita dalla scrittura.

Scrivere della e sulla morte non significa necessariamente accarezzare pensieri mortali, ma potrebbe manifestare esattamente il contrario, tali e tante possono essere le ‘menzogne’ della letteratura, gli inganni, i tranelli, le maschere, gli infingimenti della scrittura, astuta e insospettabile infedele. Gli stessi necrologi, quegli articoli delegati a fare della celebrazione della morte un’attestazione di sopravvivenza durevole del personaggio commemorato, redatti da Monteiro, vengono giudicati da Pereira “deliranti” non solo perché rivoluzionari, ma soprattutto perché non rispettano la funzione che egli attribuisce loro di pietra tombale da apporre su esistenze che, proprio in quanto meritevoli di celebrazioni postume, si guadagnano invece il diritto all’infinito. Si tratta di un diritto considerato forse blasfemo dal grigio e pavido redattore, che non riesce neppure a difendere le proprie scelte estetiche e letterarie davanti al tribunale del conformismo ideologico, personificato dal suo direttore.

Se Pereira ama indugiare sul problema della morte, sul pensiero della resurrezione della carne e non esita a dichiararsi apolitico, se non addirittura a configurarsi come pavido connivente del potere, Monteiro Rossi è voracemente affamato di vita e generosamente dedito all’impegno politico. Inoltre, mentre il giornalista rompe la sua solitudine affettiva soltanto con il ricorso a colloqui-monologhi con il ritratto della moglie defunta, il giovane ha una compagna, Marta, con cui condivide l’interesse politico e nella quale Ferraro ravvisa “l’«alter ego» della moglie di Pereira” (Ferraro 1995: 57). La frequentazione di questa coppia, così presa dalla passione ideologica che ne fa dei convinti attivisti, finisce con l’influire sulla sbiadita personalità di Pereira. Tuttavia sarà soltanto il soggiorno in una clinica talassoterapica di Parede, e soprattutto le conversazioni con il dottor Cardoso, il medico che lo segue e che potrebbe rivestire i panni del terapeuta-giudice-adiuvante, a rendere l’uomo consapevole di se stesso, delle sue mancanze, dei suoi bisogni, delle tensioni subdolamente annidatesi nelle pieghe della sua grigia esistenza.

In uno spazio particolare come quello della clinica, dove il “fuori” viene inevitabilmente vissuto come un ‘altrove’ variegato di inganni e di minacce, in antitesi con il “dentro”, che si offre quale confortevole riparo e protezione, anche il tempo obbedisce a una grammatica diversa, governata dal ritmo introspettivo. Il concorrere di questi elementi fa sì che il chiuso e riservato giornalista si affidi liberamente alla parola per proiettare, nel corso delle conversazioni con il medico, sullo schermo dell’altro, quel sé sepolto nei muti abissi del conformismo, della diffidenza e della paura e imbrigliato dall’attenta supervisione dell’“io egemone”. La parola, interdetta sia da una naturale propensione alla latitanza nei confronti del quotidiano, sia dalla dittatura salazarista, sembra sciogliersi in un’affabulazione desiderosa di collocarsi sotto lo sguardo esaminatore di un altro, al cui orecchio attento e vigile si porge.

E questo ‘altro’, significativamente, pur ricoprendo un ruolo complesso e stratificato, manca di un nome proprio: viene menzionato solo con la sua qualifica professionale e con il cognome. Poliedrico è il personaggio del dottor Cardoso: all’inizio della sua comparsa sulla scena testuale egli è il medico interessato a programmare il piano alimentare del degente; quasi subito dopo diventa l’analista attento a rintracciare nessi occulti all’interno del grigio labirinto umano disegnatogli progressivamente da Pereira; di buon grado si presta a farsi interlocutore letterario cui il giornalista parla dei propri progetti di lettura e di scrittura; con agio veste i panni di censore e di giudice degli atti eccessivi, mancati o incompiuti del dimesso redattore e non disdegna di indossare quelli di confessore e di amico. Infine, complice della beffa finale con cui viene ingannato il proto, che deve comporre il necrologio accusatorio di Pereira, si fa risorsa imprescindibile dello stesso narratore, che senza il suo risolutivo intervento, non avrebbe potuto assegnare a Pereira il compito di adempiere alla delega ricevuta dal martirio di Monteiro Rossi.

“Uno, nessuno, centomila”, citando Pirandello: tanti sono dunque i ruoli affidati al dottor Cardoso, non ultimo quello di costituirsi come doppio di quel dottor Pereira, anch’egli privo di nome proprio. Infatti Cardoso, che accarezza l’idea di fuggire dal Portogallo piagato dalla dittatura salazarista, riflette specularmente la tacita ricerca del giornalista, la incoraggia, la favorisce e l’accompagna fino al suo approdo, un approdo che tuttavia non esibisce nessun carattere definitivo. Versione laica del francescano padre António, omonimo dell’autore, questo personaggio ricopre, tra gli altri, anche il ruolo di confessore, un ruolo che ci obbligherebbe a ricercare la colpa da emendare con il rito lustrale della parola. Sostiene Pereira in effetti è anche una confessione, dove tuttavia il pentimento si fa strada in maniera progressiva, sollecitato dal terapeuta Cardoso e dall’amico francescano, il cui atteggiamento anche linguistico talvolta, come nel capitolo XIX, è rappresentato in maniera profondamente censoria e finanche minacciosa.

Il comportamento di entrambi questi confessori-giudici mira a rendere Pereira consapevole del proprio dovere di uomo, un dovere che, una volta adempiuto, gli guadagnerà quel nome proprio che, in quanto Pereira, il narratore non ha inteso assegnargli. A Pereira è richiesta un’autoanalisi in termini laici, o un esame di coscienza in termini religiosi, che lo porti a rendere conto al proprio interlocutore di se stesso, dei propri atti, delle proprie latitanze, di un pensiero e di una parola che stentano a risolversi in azione, in ideale, in impegno. Padre Antonio (doppio religioso del laico Tabucchi?), paradossalmente, lo esonera dal rito della confessione, in quanto le mancanze di Pereira non sono inscrivibili all’interno di quel decalogo, di cui egli è portavoce e garante:

Arrivederci padre António, disse, scusi se le ho fatto perdere tutto questo tempo, la prossima volta mi verrò a confessare. Non ne hai bisogno, replicò padre António, prima vedi di commettere qualche peccato e poi vieni, non mi fare perdere tempo inutilmente (SP: 147).

Severo, il dottor Cardoso, rappresentante dell’implacabile morale laica, non esime invece Pereira dal compiere l’autoindagine che, una volta avvenuta, non tarderà a comportare anche l’atto di contrizione, ineludibile in ogni rito di confessione. Infatti è dai colloqui con il medico che gradualmente si origina nel maturo giornalista la consapevolezza dell’insoddisfazione, del “pentimento”, che tarla i suoi giorni: “[...] è come se avessi voglia di pentirmi della mia vita, non so se mi spiego [...] è di questo che sento il bisogno di pentirmi, come se io fossi un’altra persona [...] come se io dovessi rinnegare qualcosa”(SP: 121-122), rivela infatti al suo confidente. Come in qualsiasi confessione, immancabile si origina dunque il sentimento di contrizione. E il medico-analista lo invita a ricercare l’“evento”, il quid cui poter addebitare la situazione di crisi:

[...] l’evento è un avvenimento concreto che si verifica nella nostra vita e che sconvolge o che turba le nostre convinzioni e il nostro equilibrio, insomma l’evento è un fatto che si produce nella vita reale e che influisce sulla vita psichica, lei dovrebbe riflettere se nella sua vita c’è stato un evento (SP: 121).

Pereira non ha esitazioni e proprio nell’incontro con la giovane coppia riconosce l’evento, quell’imperioso stimolo al confronto che ha finito per scuotere le sue annose, arrugginite certezze. Nel giovane Monteiro ha oscuramente intravisto quel suo ‘doppio’ perduto nei labirintici meandri di un’esistenza vissuta in un trasognato stato ipnotico, in una dimensione di trance in bilico tra la vita e la morte, all’inseguimento sempre poco convinto dei miraggi che il quotidiano gli offriva, povere tappe da ritagliare forzosamente nel riquadro incolore delle sue giornate: la sosta al Café Orquídea, la serie interminabile di limonate e di frittate, l’illusorio colloquio con la moglie defunta, lo stesso mutilo rapporto con il giornale e con la letteratura. Pereira sembra mettere in discussione tutto questo, sia pure in maniera indistinta, in una forma non ancora cosciente e razionale.

Sin dal quinto capitolo il giovane Monteiro Rossi si configura come immagine specchiata, riflesso giovanile di Pereira, proiezione di ricordi passati e promessa di inviolate potenzialità di futuro, “altro” cui il giornalista demanda inconsapevolmente la possibilità di riscattare l’inespresso della sua vita, quasi fosse quel figlio mai avuto e desiderato, cui delega l’incompiuto della propria lacunosa esistenza. In questi termini infatti ne parla alla muta effigie della moglie:

[...] ho trovato un ragazzo che si chiama Monteiro Rossi e ho deciso di assumerlo come collaboratore esterno [...] credevo che fosse molto sveglio, invece mi pare un po’ imbambolato, potrebbe avere l’età di nostro figlio, se avessimo avuto un figlio, mi assomiglia un po’, gli cade una ciocca di capelli sulla fronte, ti ricordi quando anche a me cadeva una ciocca di capelli sulla fronte?, era al tempo di Coimbra [...] (SP: 35).

In un misto di diffidenza e di fiduciosa speranza, Pereira inizia dunque questo rapporto di lavoro con il giovane, di cui inavvertitamente subisce l’influenza. E il dottor Cardoso percepisce il ruolo positivo, vitale che Monteiro può esercitare sul suo paziente, che invita perentoriamente a recidere il filo con il passato, a rifuggire da quelle solitarie, sterili conversazioni con il ritratto della moglie e ad aprirsi invece al futuro, che veste appunto i panni del giovane: “[...] lui è giovane, è il futuro, lei ha bisogno di frequentare un giovane, anche se scrive articoli che non possono essere pubblicati sul suo giornale, la smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro” (SP: 158).

Pereira aiuta economicamente Monteiro, nonostante non ne pubblichi gli articoli “deliranti e rivoluzionari”, né manca di soddisfare le richieste di denaro della coppia, ogni volta che i ragazzi si rivolgono a lui, ma secondo il dottor Cardoso ciò sarebbe “meno di quanto vorrebbe effettivamente fare” (SP: 156). Il giornalista non si rende conto appieno di tale sua esigenza e soltanto in seguito, quando prenderà la sofferta decisione di ospitarlo in casa propria e di farsene quindi complice, la domanda (“cosa posso fare di più?”, SP: 157), rivolta principalmente a se stesso piuttosto che all’interlocutore, troverà un’adeguata risposta. Tuttavia soltanto quando Francesco verrà selvaggiamente ucciso dalla polizia politica, Pereira comprenderà che cosa l’esistenza, nei panni del giovane e per bocca del medico, richieda da lui e finalmente, con responsabile coraggio, darà spazio a quel sé che esige di venire allo scoperto e di manifestare il suo impegno sia nei confronti della propria persona sia verso quel sociale, da cui si è tenuto sempre troppo codardamente distante.

Egli accetterà la delega consegnatagli dal sacrificio del giovane e comincerà ad agire: si impossesserà della parola, per giunta pubblica e vestirà finalmente i panni di giornalista e di uomo. Stilerà lui stesso il necrologio, non avrà remore a denunciare l’assassinio e, per la prima volta, cosa che non aveva mai fatto in precedenza, firmerà il suo articolo: si approprierà dunque di quell’identità a lungo misconosciuta, ma ricercata dalla scrittura. Con la firma apposta sotto il necrologio-denuncia Pereira assume su di sé, con il proprio nome, anche lo status di giornalista, un’identità che, sebbene difesa con la soluzione finale di un viaggio senza ritorno, vive soltanto nell’hic et nunc dello spazio cartaceo. Un’identità che è dunque destinata a morire nel momento stesso in cui, fattasi segno grafico, vedrà finalmente la luce. Si tratta di una parola, di un nome che, concretati in scrittura, vengono sì consegnati all’eternità, ma congelati in uno spazio che, mentre li accoglie, ne limita le potenzialità, quando già un’altra identità, riposta in valigia insieme al ritratto della moglie defunta, metonimia di una vita da sempre rimossa, è pronta a garantirgli il viatico per la nuova, indefinita esistenza che si accinge a intraprendere.

Infatti Pereira, prima di abbandonare la casa e la sua defilata esistenza, si appropria di uno dei passaporti di Monteiro, cui assegna il compito di legittimare la nuova vita che va ad intraprendere: ne sceglie uno francese, sia in omaggio a quella cultura, sia quale atto di sfregio nei confronti di quel potere che, prima nei panni del suo direttore, successivamente tramite il volgare patriottismo di uno degli assassini del giovane, gli aveva rimproverato aspramente “Il panegirico della Francia” (SP: 168):

Andò alla libreria, e cominciò a sfogliare i passaporti di Monteiro Rossi. Finalmente ne trovò uno che faceva al caso suo. Era un bel passaporto francese, fatto molto bene, la fotografia era quella di un uomo grasso con le borse sotto gli occhi, e l’età corrispondeva. Si chiamava Baudin, François Baudin. Gli parve un bel nome, a Pereira (SP: 206).

Non ci sembra casuale il nuovo nome proprio, François, accuratamente scelto in vista della nuova esistenza: traduzione francese di Francesco, esso dà corpo, esplicita quel processo di rispecchiamento apertosi sin dall’inizio del racconto. Del resto Francesco Monteiro, che all’inizio della vicenda si configurava come fiero emblema di vita, ha assolto il suo ruolo, si è caricato delle tensioni mortali di Pereira e ha chiuso i suoi giorni con il sacrificio dei propri giovani anni in nome della legge letteraria della specularità. Ora è la volta del maturo giornalista di adempiere allo stesso obbligo, per assumere l’esuberante baldanza del giovane e dare libera voce a quell’“io egemone”, cui Francesco Monteiro ha prestato le sue fattezze.

Con questo emblematico gesto e con la definitiva partenza in direzione di un imprecisato spazio e di un altrettanto indeterminato futuro, Pereira riesce ad assegnare concretezza a quel sé fino ad allora represso e imbavagliato e, contemporaneamente, ad assumere quella coscienza politica via via maturata ed infine ereditata dal suo doppio. L’atroce morte del giovane Monteiro si delinea dunque come rito sacrificale funzionale ai fini di quella trasformazione che, strutturalmente, motiva e legittima ogni racconto. Grazie a questa soluzione narrativa, il personaggio del giornalista perde la grigia incorporeità iniziale e acquista decisamente spessore, mentre la sua immagine si arricchisce di valenze multiple. La scrittura soddisfa quelle esigenze di azione come esistenza in vita, che determinano il comporsi dell’intero romanzo, teso a trasformare in protagonista quello stinto testimone-paziente che si è fatto tanto poco convinto locutore e attore da delegare ad altri il compito di riferire la sua testimonianza di vita e di morte. Egli rompe quel silenzio coatto e deliberato non solo perché il tempo della dittatura, del controllo, della sorveglianza è finito, ma soprattutto perché ha deciso di testimoniare e quindi di delegare ad altri la responsabilità della propria parola-azione.

Il narratore, “ruolo che l’autore escogita e fa assumere al suo delegato interno” (Pagnini 1980: 29; corsivo del testo), raccoglie quindi la delega e si fa “voce narrante” attivata da Tabucchi allo scopo di riferire quello che Pereira via via racconta e sostiene, mentre l’autore empirico, pur muovendo le fila di una vicenda in cui la parola è l’altra faccia dell’azione, sembra ritirarsi dalla scena e assistere fuori campo, alla stregua di un qualsiasi lettore-testimone, a quanto va componendosi sulla pagina. Sia l’autore che il lettore diventano dunque testimoni della storia, ma entrambi vengono reclutati dal racconto e trasformati in protagonisti. Ciò si verificherà quando al primo spetterà il compito di scrivere la parola conclusiva e di apporre il proprio nome sulla copertina del libro e sotto la Nota che postilla il testo e quando al secondo toccherà di inseguire, insieme all’autore stesso, quel moltiplicarsi di identità, quella “confederazione di anime” che si aggira all’interno del romanzo e della Nota stessa.

Se si pone attenzione a questo dispositivo paratestuale[7], osserviamo che esso esibisce tratti che ci impongono di considerarlo come testo partecipe dell’orditura del romanzo appena concluso, piuttosto che come ridondante e insignificante appendice. Infatti è qui che fa la sua esplicita comparsa il deittico di prima persona “io” che, mentre assegna a Tabucchi la funzione autorale, ne fa anche uno dei personaggi del romanzo, un co-protagonista alla cui accorta complicità creativa Pereira deve le sue sorti. La stessa dimensione crononologica trova la sua esplicitazione, dopo essere rimasta sospesa lungo tutto il racconto in una rarefatta indeterminatezza. Infatti la coordinata temporale, pur precisata sin dall’inizio e sottintesa dagli eventi di una storia ancora troppo recente, attraverso la sperimentata tecnica tautologica di un rimando senza un preciso referente, viene via via frammentata[8].

Nella Nota un luogo (Vecchiano) e una data (25 agosto 1993) – indicatori deittici per eccellenza – ancorano il testo al contesto situazionale in cui si è prodotto il segno letterario. Mediante questa esplicita istanza enunciativa (ego-hic-nunc), il lettore viene introdotto all’interno dell’evento creativo e può farsi a sua volta testimone della delega assegnata da Tabucchi stesso alla scrittura. Infatti, scrupolosamente, egli si premura di informare il destinatario che in quella particolare data, ricorrenza del compleanno della figlia, per fortunata coincidenza, ha ultimato il romanzo, quasi a voler suggellare la ritualità di un atto di onnipotenza, che lo rende contemporaneamente padre e autore. Nel segno di questa coincidenza che, proprio perché sottolineata al lettore altrimenti ignaro, si configura come significativa in quanto lessicalizza a chiare lettere il processo di interazione continua tra letteratura e vita, vede dunque la luce Sostiene Pereira. Il titolo e la sua ripetizione ossessiva acquistano in questo spazio paratestuale una loro palese motivazione. Qui sembra infatti si possa leggere la risposta all’interrogativo di partenza: chi è Pereira che iterativamente sostiene?

Il dottor Pereira mi visitò per la prima volta in una sera di settembre del 1992. A quell’epoca lui non si chiamava ancora Pereira, non aveva ancora i tratti definiti, era qualcosa di vago, di sfuggente e di sfumato, ma aveva già la voglia di essere protagonista di un libro. Era solo un personaggio in cerca d’autore. Non so perché scelse proprio me per essere raccontato (SP: 211).

Ectoplasma informe senza nome proprio e senza corpo, il dottor Pereira si rivolge dunque al narratore per poter acquistare materialità di fattezze e un’identità: la scrittura assurge quindi a destinataria di una delega all’esistenza da parte del personaggio, i cui tratti finiscono con il farsi maschera dello stesso autore, in un fertile rapporto di reciprocità in cui risulta difficoltoso distinguere con precisione i connotati dell’uno da quelli dell’altro. Se infatti Tabucchi è incaricato dal personaggio a riferire qualcosa e a creare dall’informe un protagonista, egli a sua volta delega lo stesso Pereira, concretato dalla sua operazione letteraria, a rappresentarlo.

Tabucchi, come Pereira che appone la sua firma sotto il necrologio prima di congedarsi e prendere il treno verso l’ignoto, nella Nota incide l’istanza enunciativa ego-hic-nunc e ripete il nome autorale. E, per dirla con Lejeune, “[...] la place assignée à ce nom est capitale: elle est liée, par une convention sociale, à l’engagement de responsabilité d’une personne reelle [...] une personne dont l’existence est attestée par l’état civil et vérifiable” (1975: 23 [1986: 23]; corsivo del testo). L’autore si appropria dunque del discorso, prima di consegnarlo alla lettura, a un destinatario senza volto il cui giudizio è sconosciuto come la meta di Pereira. Come l’identità del giornalista è destinata a morire nel momento stesso in cui viene congelata nella firma, così l’identità di Tabucchi, quale autore di Sostiene Pereira, muore quando il romanzo approda alla sua conclusione. Si tratta tuttavia di un epilogo pronto a riconvertirsi in inizio, a moltiplicarsi ogni volta nell’arcano compiersi dell’atto di lettura. Sarà questo atto a restituire il diritto all’esistenza al personaggio e al suo autore e sarà il lettore a farsi giudice ultimo di una testimonianza volta a tradurre l’esigenza, sempre più prepotente, di una parola desiderosa di risolversi in vita.

Pirandelliano personaggio in cerca d’autore dai tratti sfumati e sfuggenti, che trascina stancamente la sua vita con gli occhi e la parola rivolti al passato, Pereira è, a sua volta, delegato dallo stesso Tabucchi autore in cerca di personaggio, a farsi testimone e garante letterario dell’indagine inarrestabile, che qui prende le fattezze di romanzo e, ambiguamente, assume nel sottotitolo la specificazione di testimonianza, una precisazione che in realtà non apporta informazione, ma intorbida e stratifica il senso. La clausola iterata che, a guisa di formula propiziatoria e con una evidente funzione argomentativa ed euristica, incornicia quasi ogni capitolo, obbedisce anche all’esigenza, avvertita dalla scrittura, di deresponsabilizzarsi nei confronti della materia stessa del racconto, da cui vuole esibire marcatamente la propria distanza, forse per meglio ravvisare nell’immagine specchiata le crepe che ne alterano e talvolta ne deturpano le fattezze.

Pereira si colloca in bilico tra realtà e finzione letteraria: “trasposizione fantasmatica del vecchio giornalista” (SP: 212), anch’egli senza nome, di cui lo scrittore aveva visitato la salma il mese prima di essere a sua volta visitato dal personaggio pirandelliano da estrapolare dal magma dell’indistinto per conferirgli un’identità mediante la rappresentazione letteraria, Pereira riceve dal suo demiurgo anche il nome. Esso, che – come precisa Tabucchi con una glossa metalinguistica – in portoghese significa “albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica” (SP: 213), da un lato vuole essere un omaggio al popolo ebraico, vittima delle “grandi ingiustizie della Storia”, dall’altro, con una motivazione squisitamente letteraria, si fa richiamo intertestuale di “[...] un piccolo intermezzo di Eliot What about Pereira? in cui due amiche evocano, nel loro dialogo, un misterioso portoghese chiamato Pereira, del quale non si saprà mai niente” (Ibid.). Attraverso Eliot, riferimento autorevole per qualsiasi discorso novecentesco sulla letteratura, il narratore delega la propria creatura a farsi simbolo e metafora della creatività come ricerca, nonché dei suoi segreti processi, per rappresentarne tensioni e dissidi, gloriosi rischi e fughe riprovevoli.

Ultimato da Tabucchi, probabilmente per una non troppo casuale coincidenza, il giorno del compleanno della figlia, Sostiene Pereira si configura dunque come emblematica rappresentazione del connubio di ricerca letteraria ed esistenziale, come testimonianza di un’esplorazione senza ritorno affidata alla scrittura, delegata finale di un processo che, lungi dall’esaurirsi, solo con il coinvolgimento del lettore si completa, senza tuttavia mai chiudersi. Voce-testimonianza di un’indagine che delega la parola a diventare elemento soterico risolutivo della crisi di valori e di ideologie che, alle soglie del Duemila, fa dell’uomo una stinta e pavida comparsa della storia, questo romanzo attesta anche, sotto rarefatti velami e sapienti infingimenti narrativi, certezze e interrogativi dello stesso autore. Fiducioso nella possibilità di governare il letterario fin nei suoi labirintici meandri, dubbioso di riuscire, con gli stessi esiti, a lacerare e a rappresentare le tenebre che si addensano sui cunicoli dell’esistenza, lo scrittore vince la sfida lanciata a se stesso e al suo lettore. A quest’ultimo egli ripropone la domanda da cui si origina la sua scrittura in un epilogo e in una Nota dalla funzione metaletteraria che, invece di chiudere il discorso, lo inabissano nel vertiginoso vuoto della lettura. Un atto che esige di rimanere aperto e problematico, come è la realtà esistenziale e letteraria che ipnotizza questa narrativa fino a renderla lucidamente nostalgica di un neoumanesimo di cui essa stessa illumina anche le più inquietanti crepe.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bertone Manuela, 1996/97, “Paths to Testimony in Sostiene Pereira”, in B. Ferraro, N. Prunster (a cura di), Antonio Tabucchi. A Collection of Essays, Spunti e Ricerche, 12: 175-185.

Coletti Vittorio, 1994, “Ripete Tabucchi”, in L’Indice dei libri del mese, XI, 5: 10.

Ferraro Bruno, 1995, “Introduzione e analisi del testo” ad Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira, Torino, Loescher: 1-84.

Gaglianone Paola, Cassini Marco (a cura di), 1997, Conversazione con Antonio Tabucchi. Dove va il romanzo?, Milano, Nuova Òmicron: 5-34.

Genette Gérard, 1987, Seuils, Paris, Éditions du Seuil [tr. it. Soglie, a cura di C.M. Cederna, Torino, Einaudi, 1989].

Jansen Monica, 1993, “Tabucchi: molteplicità e rovescio”, in N. Roelens, I. Lanslots (a cura di), Piccole finzioni con importanza. Valori della narrativa italiana contemporanea, Ravenna, Longo: 137-146.

Lejeune Philippe, 1975, Le pacte autobiographique, Paris, Éditions du Seuil [tr. it Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986].

Livorni Ernesto, 1995, “Trompe-l’œil in ‘Notturno indiano’ di Antonio Tabucchi”, in S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche (a cura di), Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, Atti del Convegno Internazionale (Leuven – Louvain-la-Neuve – Namur – Bruxelles, 3-8 maggio 1993), vol. I, Roma-Leuven, Bulzoni-Leuven University Press: 431-453.

Nencioni Giovanni, 1976, “Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato”, in Strumenti critici, 29: 1-56; ora in Id., Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli: 126-179.

Ong Walter J., 1982, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London-New York, Methuen [tr. it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986].

Pagnini Marcello, 1980, Pragmatica della letteratura, Palermo, Sellerio.

Pugliatti Paola, 1985, Lo sguardo nel racconto. Teorie e prassi del punto di vista, Bologna, Zanichelli.

Scrivano Riccardo, 1997, “L’orizzonte narrativo di Antonio Tabucchi”, in Gaglianone, Cassini, 1997: 35-52.

[1] Si precisa che tutte le citazioni presenti nel testo si riferiscono alla seguente edizione: A. Tabucchi, Sostiene Pereira. Una testimonianza, Milano, Feltrinelli, 1996 (d’ora in avanti SP). Il romanzo ha ottenuto un grande successo, di pubblico e di critica, nonché prestigiosi riconoscimenti letterari, quali il Premio Viareggio, il Campiello, il Premio Scanno e il Premio dei Lettori. Con la trasposizione cinematografica infine, grazie alla fine interpretazione di Marcello Mastroianni, esso ha potuto raggiungere una più vasta platea.

[2] Su questa tematica si soffermano gli interessanti contributi di Jansen (1993) e Scrivano (1997).

[3] Per un’analisi delle diverse funzioni e valenze semantiche attribuite alla clausola “Sostiene Pereira” all’interno del romanzo, cfr. Bertone (1996/97).

[4] L’ambientazione estiva, la solarità di Lisbona fanno da sfondo anche a I pomeriggi del sabato, un racconto di Il gioco del rovescio e a Requiem, il romanzo scritto direttamente in portoghese e tradotto in italiano da Stefano Vecchio.

[5] Il semema della morte, che come un filo rosso percorre l’intero romanzo, Nota compresa, va qui interpretato anche nel senso più ampio di vegetazione, inazione, deresponsabilizzazione ed è strutturato per risolversi nell’isotopia contraria della vita come scelta coraggiosa, azione, ideale, assunzione di identità. Si tratta di un paradigma caro alla narrativa tabucchiana, che ne fa il motivo dominante di Notturno indiano, dove si coniuga con il tema del viaggio, con accezione anche simbolica. A questo riguardo, cfr. Livorni (1995).

[6] Sulla commistione oralità-scrittura, cfr. Nencioni (1976), Ong (1982).

[7] Sulla nota come procedimento paratestuale che, insieme ad altri, può corredare funzionalmente e strategicamente un testo, cfr. Genette (1987: 293-315 [1989: 313-336]).

[8] Basti solo considerare che l’incipit di ogni capitolo, tranne il IV, il XXIV e il XXV, reca una indicazione temporale che, estremamente segmentata, invece di contribuire a informare meglio il lettore circa la dimensione cronologica, la sfuma e la disarticola a tal punto da renderla ininfluente ai fini della vicenda.

*apparso in Hans Felten e David Nelting (Hrsg.), …una veritade ascosa sotto bella menzogna…. Zur italienischen Erzählliteratur der Gegenwart, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2000, pp. 1-16.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :