Divoro cinema da una vita, ed ho la presunzione di riconoscere il talento quando lo vedo, ma ammetto che con Crialese non ci avevo proprio capito un cazzo. Quando vidi Respiro attribuii il fascino della pellicola, riconosciuto da pubblico e critica, esclusivamente alle incantevoli scenografie naturali di Lampedusa, ma poi venne Nuovomondo, e mi accorsi della mia incredibile cantonata. La parola chiave, a mio giudizio, per interpretare l’opera di Emanuele Crialese, è “contrasto”. E se in Nuovomondo il contrasto era tra la visione di Salvatore, un uomo che per trent’anni non aveva parlato altro che il suo dialetto e che non aveva visto altro che la sua terra, e quella di Lucy, raffinata e colta donna inglese, tra il mondo arcaico-magico dei protagonisti con quello pragmatico e disincantato della terra americana, tra la vita sperata e la vita disperata, in questo ultimo lavoro, del purtroppo poco prolifico Crialese, Il contrasto è tra l’antico e nobile codice del mare che non permette a nessuno di lasciare nessun’altro alla mercé delle onde, con la meno nobile legislazione recente, che definisce quell’aiuto favoreggiamento d’immigrazione clandestina, il contrasto tra vecchie e nuove generazioni, il contrasto tra le braccia sollevate per chiedere aiuto di alcuni disperati a bordo di un gommone, con le braccia sollevate e mosse a tempo di Maracaibo su un barcone pieno di turisti. Ma il contrasto (rispettato anche nella fotografia) non genera attrito, ma una nuova forma di energia, sconosciuta ai protagonisti dell’universo narrativo di Crialese, e che si avvicina assai al concetto di libertà, una libertà che poco ha che vedere con la chimera del detenuto, perché la catene e le grate che spezza non sono fuori dal corpo del liberato.
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