L’altra sera sono stata dolorosamente colpita da un servizio messo in onda dal TG2 della sera. Per la verità sono sempre dolorosamente colpita dai servizi del TG2, ma l’altra sera il “calcio in faccia” è stato particolarmente doloroso. Il servizio era un approfondimento sulle “Terre Rare” ovvero quelle sostanze che sono essenziali alle “moderne tecnologie”. In realtà l’approfondimento era talmente pieno di errori che ci si chiede se il redattore sia in grado di consultare almeno Wikipedia. In pratica era quella che ai bei tempi dell’URSS si chiamava disinformacjia DISINFORMAZIONE.
L’approfondimento infatti assumeva erroneamente che l’aggettivo raro in “Terre Rare” valesse nella sua accezione comune (raro agg. 1. infrequente, sporadico, discontinuo, saltuario, 2. non comune, insolito, inconsueto, particolare, singolare, originale, speciale, straordinario, eccezionale, curioso, 3. estens. prezioso, pregiato, unico, introvabile. http://dizionari.corriere.it/dizionario_sinonimi_contrari/R/raro.shtml) e non aveva la più pallida idea che il significato chimico di “raro” è ben altro.
In chimica le “Terre Rare” (o Lantanidi – rare earth elements/REE/ rare earth metals) sono un gruppo di 15 elementi chimici della Tavola periodica che presentano gli orbitali 4f occupati e sono Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio. Ad essi si aggiungono commercialmente altri due elementi che non appartengono dal punto di vista atomico alla serie dei Lantanidi, lo Scandio e l’Ittrio, che però si trovano nello stesso gruppo del Lantanio, hanno perciò proprietà chimiche simili e spesso si trovano negli stessi depositi minerari del Lantanio e delle altre REE.
Il nome “Terre Rare” non è dovuto, come suggeriva erroneamente il TG2 alla loro “rarità” o scarsità, ma al fatto che, pur presentandosi con un’abbondanza relativamente alta sulla superficie terrestre, sono di difficile estrazione rispetto agli altri metalli di transizione. In effetti è proprio questo uno dei problemi delle Terre Rare: la loro estrazione è non solo difficile, ma estremamente inquinante soprattutto per ottenere il grado di purezza necessario per il loro uso nelle nuove tecnologie. Questo è il motivo per cui fino ad ora, benché appunto piuttosto comuni sulla superficie terrestre, la loro estrazione è stata fatta zone non metropolitane, ovvero da depositi di sabbia in India e Brasile (fino agli anni Cinquanta), nel Sudafrica (anni Cinquanta) e tra il 1965 e il 1985 in California nella regione del South Pass. L’alto costo ambientale dell’estrazione delle Terre Rare, unita alla “guerra legale ambientalista” che attraverso le class actions portò al fallimento e alla chiusura di grandi multinazionali dell’industria mineraria americana come la Kerr McGee, fece spostare il polo estrattivo delle REE nella Repubblica Popolare Cinese. Dal 1985 la Cina si impose come produttore di REE e attualmente estrae il 97% della produzione mondiale.
L’estrazione delle REE è estremamente inquinante in quanto oggi essa utilizza il sistema dell’ ISL (in-situ leaching, o ISR in-situ recovery o solution mining; in italiano ‘estrazione per lisciviazione in sito’ o del Heap Leaching (lisciviazione a mucchio). Il processo inizia con la perforazione del giacimento. Degli esplosivi o la fratturazione idraulica vengono utilizzati per creare dei percorsi aperti nel giacimento per permettere alla soluzione di penetrare. La soluzione di lisciviazione viene pompata attraverso questi percorsi nel giacimento e viene a contatto con il minerale che si scioglie in essa. La soluzione contenente il minerale disciolto viene poi pompata in superficie e trattata. Questo processo permette l’estrazione di metalli e sali da una massa minerale senza dover usare l’estrazione convenzionale che coinvolge il drill-e-blast (perfora ed esplodi), l’open-cut (miniere a cielo aperto) o le miniere sotterranee.
Fino agli anni 2000 la domanda di Terre Rare era di circa 40.000 tonnellate l’anno, ma l’aumento della domanda di oggetti contenenti REE come gli iPhone e soprattutto l’esplodere della “green economy” ha fatto schizzare la richiesta di REE e i loro prezzi.
Negli ultimi dieci anni la richiesta di REE è triplicata raggiungendo la quota di 120.000 tonnellate l’anno. Si valuta che le industrie che utilizzano REE (che servono per quasi ogni cosa dalle fibre ottiche ai sistemi di guida per i missili, dai auto elettriche/ibride alle turbine a vento, alle lampadine a basso consumo) sia di circa 3.730 miliardi di euro ovvero il 5% del prodotto interno lordo globale (cfr: http://www.independent.co.uk/news/world/asia/concern-as-china-clamps-down-on-rare-earth-exports-1855387.html).
In ragione della enorme richiesta e delle sue mire di prima potenza mondiale la Cina negli ultimi sette anni ha ridotto del 40% la quantità di REE che immette sul mercato globale e circolano voci che sarebbe intenzionata a tagliare del tutto l’esportazione di almeno due delle REE. Secondo alcune stime la produzione cinese di REE (ricordiamo attualmente il 97% del totale) avrebbe dovuto fin dal 2012 alimentare il solo mercato manifatturiero interno strangolando così tutti i concorrenti esteri di moderne tecnologie con un ricatto del tipo “O compri cinese o lo fai fare in Cina”. Quello che al momento ha bloccato il progetto è la crisi mondiale che ha azzoppato anche la crescita del Dragone. Ma in realtà la Cina è già passata dall’esportazione del 75% del prodotto grezzo al 25% e non considera di avere alcun obbligo ad assicurare le scorte di REE a nessuno eccetto che a se stessa (cfr: http://www.independent.co.uk/news/world/asia/concern-as-china-clamps-down-on-rare-earth-exports-1855387.html). Questa politica ha già suscitato numerosi interrogativi all’interno del WTO.
(segue)
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